SI CERCANO ma non si trovano. Oppure: vanno in tandem, ma ognuno guida per conto suo. Sono queste le cifre stilistiche del rapporto tra Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani. Certo, ancora non siamo agli eterni duellanti del ventennio berlusconiano (gli stucchevoli Massimo D’Alema e Walter Veltroni), però la letteratura sui due si arricchisce ogni giorno di nuove narrazioni.
In queste ore, raccontano i bersaniani, Pier Luigi «è davvero fuori di sé per quel ‘fate un po’ come vi pare’ sibilato da Matteo». Mentre l’ex sindaco di Firenze si ombrerebbe facilmente a ogni batter d’ali della cosiddetta sinistra Pd. Eppure, non si detestano. Mantengono un rispetto di fondo pur avendo idee diversissime. Quel che è curioso, diciamo così, è che i contendenti giocano in ruoli interscambiabili. E se la parola-chiave è «lealtà», le frecciate non mancano. Anche aspre. Pensiamo al ruolo del Pd. Ora, a non perdere occasione di sbandierar la sua volontà di rimanere nel Partito è Pier Luigi. Il 13 marzo 2013 – secoli fa – fu Matteo a dichiarare: «Cambiare partito? – affermò pochi mesi dopo aver perso le primarie –. No. Sono rimasto nel Pd e con Bersani non solo perché sono leale alla Ditta (il Pd secondo la definizione di Pier Luigi ndr), ma anche perché penso che per l’Italia sia utile avere due grandi partiti». C’è poi un problema oggettivo: Renzi – e ci riferiamo alla delicatissima partita per il Colle che si sta giocando nelle più o meno segrete stanze – non può permettersi di perdere Bersani accordandosi con il Cavaliere per eleggere il nuovo inquilino del Quirinale ed escludendo la minoranza. In tempi di crisi economica non è tanto igienico restare scoperti sul fianco sinistro, specie se, come par certo, la voglia di sinistra-sinistra seguita alla probabilissima vittoria di Syriza in Grecia dovesse risorgere.

D’ALTRO canto, Pier Luigi sa benissimo che non trattare con Renzi sarebbe un azzardo: le sue truppe non marciano compatte. Lui vuol trattare, secondo una vecchia pratica imparata negli anni d’oro della presidenza della Regione Emilia-Romagna, perché capisce perfettamente che la minoranza Pd è divisa tra un D’Alema deciso a fare qualcosa di nuovo, un Fassina sempre e comunque contro Renzi, un Civati con la valigia pronta per le spiagge vendoliane, un Cofferati che medita vendetta tremenda vendetta e un Cuperlo indeciso a tutto. Non solo: Matteo non vuol ripetere l’indecoroso spettacolo del 2013, quando il Pd collezionò figuracce epocali proprio sull’elezione del presidente della Repubblica e avere uno che quelle catastrofi le ha dolorosamente vissute gli fa enormemente comodo.
E quindi se si spiega con relativa facilità e senza eccessivi bizantinismi la necessità dello stare assieme, più complesso è capire perché i due non si incontrano mai. «È molto semplice – ragiona un renziano doc –. C’è una differenza culturale. Uno, Matteo, vuole una politica finanziata all’americana, l’altro non è contrario del tutto ai finanziamenti pubblici perché se no, dice, ‘la politica la fanno solo i ricchi’». E poi Pier Luigi accusa Matteo di «dire ‘noi e loro’, ma noi siamo noi tutti noi, loro è Berlusconi». E Matteo ribatte: «Non è un modo di dire, non è un tic. Siamo la stessa squadra. Ma noi siamo diversi. Siamo per il calcio totale, non per il catenaccio difensivo». Disse il tifoso viola al fan bianconero…