«ERETICO». «Irregolare». Sarà, ma forse, per questi cento anni del leader comunista Pietro Ingrao, la definizione migliore è del leader di Sel Nichi Vendola: «Non è affatto un eretico, ma il contrario: è sempre stato disciplinatissimo. L’eretico è uno che rompe, per lui non è stato così». Difficile non ricordare che i cento anni di Ingrao – oggi è il suo compleanno, nasce il 30 marzo 1915 Lenola (oggi provincia di Latina, allora della Terra di Lavoro, cioè Caserta) – sono anche una formidabile occasione per leggere il nostro Novecento, quell’Italia con il più grande Partito comunista d’Occidente.

CHE DI «ERESIA» sia difficile parlare lo dimostrano due anni terribili. Il 1956 con l’invasione dell’Ungheria da parte dei sovietici e il 1969 con la radiazione dal Pci del gruppo (quello sì davvero «eretico») del Manifesto. Due errori fatali, come ammetterà successivamente in un costante (e ossessivo) esercizio di autocritica.
Nel 1956 scrive un editoriale sull’Unità, di cui è direttore (ricordava il raffinato intellettuale comunista Ottavio Cecchi come il suo urlo ciociaro, scandito a torso nudo, risuonasse in redazione: «Riunioneeeeeeeeeeeee») dal roboante titolo Da una parte della barricata, cioè degli invasori russi. Una posizione di obbedienza totale a Palmiro Togliatti. Eppure, la vicenda turba Ingrao che va dal Migliore a manifestare i suoi dubbi ricevendone una riposta tipicamente togliattiana: «Oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più».

E POI la vicenda del Manifesto. Di quei giovani intellettuali-giornalisti-pensatori che proprio nel leader comunista vedono il loro faro: da Lucio Magri a Rossana Rossanda, da Luciana Castellina a Luigi Pintor, da Valentino Parlato ad Aldo Natoli. Pubblicano una rivista molto raffinata – oggi l’unico quotidiano di sinistra rimasto in Italia – in cui si chiede, dopo la repressione della primavera di Praga, il distacco dal “socialismo reale”. Ingrao è con loro, li svezza, salvo, in un drammatico 15 ottobre 1969, votare a favore della loro radiazione. Ingrao sposa in toto l’accusa, fatale, di “frazionismo”: «Credo, compagni, che noi dobbiamo dissentire nettamente e profondamente dal frazionismo non solo per disciplina, non solo per tradizione, ma per una ragione di fondo (…): rompere l’illusione nefasta di rinnovare “separandosi”, di rinnovare creando sette». Una presa di posizione dettata da quella fedeltà al Partito assunta come granitica cifra stilistica dalla stragrande maggioranza dei dirigenti comunisti della generazione nata tra la Prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo.
In gioventù, il “ragazzo del Novecento” è, come quasi tutti i suoi coetanei, fascistissimo. Partecipa ai Littoriali, il cui giuramento è tutto un programma: «Combatterò per superare tutte le prove, per conquistare tutti i primati con il vigore sui campi agonali con il sapere negli arenghi scientifici. Combatterò per vincere nel nome di Roma così combatterò come il Duce comanda». La rottura avviene con la guerra civile spagnola, vero e proprio spartiacque per la presa di coscienza di molti intellettuali, basti pensare a Elio Vittorini e Romano Bilenchi. Il ventunenne Ingrao – è il 1936 – capisce quanto il colpo di Stato di Francisco Franco contro il legittimo governo repubblicano sia devastante per la democrazia mondiale a causa della presenza a fianco del Caudillo di Mussolini e Hitler. Poi, le tappe successive. La Resistenza, la militanza nel Pci, il giornalista e dirigente di Botteghe Oscure.

MA di quest’uomo dall’eloquio elegante e complesso – scriveva sul «Carlino» Sergio Maldini: «Di fatto, Ingrao parla bene, e il suo linguaggio è il linguaggio di un marxista di ordine alto. Non sospetta minimamente che gli altri possano non capirlo» – è impossibile dimenticare la parte istituzionale: presidente della Camera dal 1976 al ’79. E quella di puntiglioso oppositore alla politica della solidarietà nazionale. Sempre molto amato dai giovani. Sempre guardato con sospetto dai compagni di Partito. «Ci siamo bisticciati tante volte», diceva Gian Carlo Pajetta. E anche Enrico Berlinguer non lo amava.
In fondo, Ingrao è sempre quel bambino che deve fare la pipì nel vasino chiedendo in cambio «la Luna». Un sogno impossibile (come il comunismo) che lo fa arrabbiare. Facendolo urlare disperatamente. Con gli occhi rivolti al cielo.