ANNO 2007. Massimo D’Alema guarda le agenzie nel suo studio alla Farnesina: «Che monnezza. Che imbarbarimento», mormora. Sono i giorni della pubblicazione delle intercettazioni con Giovanni Consorte (sì, quelle del celebre «facci sognare») durante la cosiddetta ‘scalata Bnl’. L’allora ministro degli Esteri è disgustato. Pubblicare così significa – ripete l’allora fedelissimo (ora renzianissimo) Nicola Latorre – «metterci alla berlina» con frasi fuori contesto. Una vicenda riaffiorata anche nei dispacci dell’ambasciata statunitense diffusi da Wikileaks. Il cablogramma è del 3 luglio 2008, le parole di D’Alema risalgono al 2007 (balbettante secondo governo Prodi in carica): «La magistratura è la più grande minaccia per lo Stato italiano». Vengono dette all’ambasciatore Usa di stanza nella Capitale, Richard Spogli. Scoppia il caos. E il Nostro precisa: «Accanto a osservazioni ovvie su fughe di notizie e intercettazioni viene riportato un giudizio abnorme sulla magistratura che non ho mai pronunciato, che non corrisponde al mio pensiero e che evidentemente all’epoca è stato frutto di fraintendimento tra l’ambasciatore Spogli e me».
E POTREMMO continuare. D’Alema, di sé, ama dare un’immagine di garantista («e legalitario», tiene a precisare) che, chissà, sarebbe bene applicasse a tutti i casi. Tralasciando la sfuriata di ieri – la domanda era volutamente provocatoria e lui, diciamo, c’è cascato – secondo alcuni scrittori di cose giudiziarie l’ex premier definiva Mani Pulite «Soviet di Milano». Oppure, in occasione dell’indagine (1993) di Carlo Nordio, esprimeva pensoso timore: «Questo avviso colpisce la credibilità di chi lo ha inviato. È un episodio che mi preoccupa, perché in questo modo finisce per creare un generale discredito delle istituzioni e c’è anche un rischio di delegittimazione della magistratura. Quell’avviso è un teorema». Per la cronaca D’Alema uscì dalla maxi inchiesta sulle coop rosse senza un graffio e, anzi, riuscì anche a essere risarcito dal ministero della Giustizia per il ritardo nell’archiviazione per circa 9mila euro. E così sempre. O prosciolto o archiviato o prescritto. Oppure, vista la mala parata, deciso a rimediare alla gaffe.
COME nel caso dell’appartamento dalle parti di viale Trastevere a Roma. Quasi 150 metri quadri affittati a equo canone. Nessun reato, ma quel milione (di lire) e poco più pagato dall’allora nastro nascente della politica italiana parve un privilegio. Dopo aver denunciato una violentissima campagna mediatica – furono «sbattuti in prima pagina», parole sue, «nomi, cognomi, indirizzi, numero civico e nome sulla targhetta» – decise di lasciare. Comprò un appartamento nella zona Nord della Capitale (pieno di libri e molto bello, dicono, a due passi da uno storico liceo ‘rosso’). Lo annunciò in tv.
ECCO, per sommi capi, il garantista D’Alema. Sicuro come pochi che il sistema tangentizio riguardasse solo Dc e Psi, ma guarda un po’. E che il «compagno G» (Primo Greganti, quello che, in manette nel 1993, negò di aver preso tangenti per il partito tenendo testa agli agguerriti inquirenti milanesi), di recente tornato agli onori (diciamo) della cronaca, sia degno di essere considerato innocente sino a sentenza: «Ho imparato che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Ah. Ma vale per tutti? Legittimo sospetto…