«LE DIVISIONI nel Pd sulla giustizia? Derivano da un mancato chiarimento teorico. E, per un partito politico, la teoria è importante quanto l’organizzazione. L’organizzazione senza pensiero politico diventa puro potere». Luciano Violante, già presidente della Camera, già magistrato, fra i più autorevoli dirigenti del Pci-Pds-Ds e del Pd, riflette sul tema giustizia, la mina che sempre esplode facendo deflagrare partiti e politica.
Presidente, quando si parla di giustizia il suo Pd è dilaniato. Come per la mancata concessione dei domiciliari ad Azzollini.
«No, quello di Azzollini è un caso specifico. Grave è che i due vicesegretari Serracchiani e Guerini, personalità peraltro degne della massima stima, abbiano reso dichiarazioni in contrasto tra loro».
Va bene, ma in questo caso si trattava di un problema di coscienza, ha detto qualcuno.
«Il ragionamento mi convince poco. Nel senso che dobbiamo deciderci. In che modo e quando si deve invocare? Non mi pare che con Francantonio Genovese ci sia stato un problema di coscienza. Né con Silvio Berlusconi, dove peraltro c’era una grande maggioranza sfavorevole al parlamentare».
Esiste il ‘caso di coscienza’?
«Quando ci si pronuncia sulla libertà personale andrebbe tenuta fuori ogni valutazione di schieramento politico. Non si manda agli arresti qualcuno perché è un avversario politico, né lo si salva perché è un collega di partito, anche se in questa legislatura è accaduto a volte il contrario».
Violante il garantista.
«Preferisco ‘legalitario’. La parola ‘garantista’ mi pare sia stata usata con un’imbarazzante abbondanza in questi ultimi anni».
Renzi dice: il Pd non è il passacarte delle Procure.
«Se il Parlamento dovesse ogni volta consentire alle richieste della magistratura, sarebbe inutile la norma costituzionale che impone un’autonoma valutazione delle Camere. Dirigere insieme partito e governo, sarebbe impresa improba per chiunque. Sarebbe opportuno cominciare a riflettere sui ruoli».
In che senso?
«Il doppio ruolo di segretario del Pd e di presidente del Consiglio alla lunga può creare danni tanto al partito quanto al governo».
È ancora convinto che ci sia un ‘rapporto malato’ tra politica e giustizia?
«Bisogna ristabilire i ruoli, senza farsi condizionare. È vero che la magistratura occupa spazi non suoi, ma, al contempo, esiste parte della politica che si rivolge ai magistrati quando non sa a che santo votarsi».
Esempi concreti?
«Michele Emiliano in Puglia. Luigi De Magistris a Napoli. O l’assessorato alla legalità a Roma».
Ruolo di supplenza, si usa dire.
«È un conflitto plebeo per cui una parte grida al complotto solo se un politico viene sfiorato, un’altra parte alza turiboli alla magistratura qualunque cosa dica o faccia, e tutti richiedono l’intervento salvifico di un magistrato, in genere pm, in vicende che devono essere risolte da attori politici».
E Roma?
«Frutto di una caporalizzazione imbarazzante. Ogni notabile, non solo a Roma, si trasforma in caporale e crea un suo microesercito. Non va bene».
Colpa di Renzi?
«Ha formato più una classe dirigente di livello per il governo e per il Parlamento che per il partito. Il Pd oggi non ha pensiero politico né organizzazione. Devono esserci l’uno e l’altro».
Torniamo ad Azzollini: salvato perché se no i numeri al Senato vacillavano…
«Figuriamoci. Che interesse può avere il Nuovo centrodestra a provocare una crisi? Ho anche sentito che Azzollini, per anni ai vertici della Commissione Bilancio, avrebbe dispensato favori a destra e a manca. Risibile…».
Insomma, i magistrati non sono una riserva della Repubblica.
«Dobbiamo superare due vizi concettuali: il magistrato sempre taumaturgo e il politico corrotto sempre e comunque».