AVEVA 17 anni. Era il 1968. E contestava contestava contestava. Il babbo (un tipo tosto quell’alpino scampato all’Armir) lo buttò fuori di casa. «Babbo, che fai!?», disse il giovane Denis con le lacrime agli occhi. «Arrangiati». Sì, è vicenda aneddotica, ma rende l’idea di un uomo che ha vissuto una vita di rotture continue, l’ultima, la più fragorosa, con Silvio Berlusconi: via da FI ed ecco il gruppo Ala, con deciso sostegno a Renzi. Che non nasconde di stimare Denis: «Mica è il mostro di Loch Ness». Con velenosa replica dell’iperbersaniano Miguel Gotor: «Il mostro di Loch Ness non esiste, Verdini purtroppo sì». Verdini come incarnazione di quella che il vecchio Pietro Nenni chiamava politique politiciénne, politica politicante. Quel Verdini che vota il fatidico articolo 2 e che s’arrabbia minacciando vie legali perché c’è chi gli attribuisce frasi come: «Tutti mi chiedono che cosa ci guadagnano a venire con me. Gli rispondo che sono il taxi. Solo io ti conduco in dieci minuti da Berlusconi a Renzi».

UN MOMENTO, però. Bisogna che si sappia come andò a finire dopo la cacciata di casa. Vagando senza meta, incontrò il figlio del macellaio e un suo amico. Stavano progettando di commerciare carni all’ingrosso. Lui prese parte all’impresa e guadagnò tanti, tanti soldi. Nel frattempo, il giovane Denis s’iscrive al Cesare Alfieri, la facoltà di Scienze politiche di Firenze. E lì avviene la prima folgorazione: Giovanni Spadolini. L’adesione al Pri, il tentativo (fallito) di entrare in Parlamento col Patto Segni nel 1994, la devozione per il Professore. Poi, dopo tanti libri di storia economica e tantissime sigarette (il suo vizio preferito), il progressivo avvicinarsi a Berlusconi. E perché non ancora il Pri? «Perché – fu la risposta – Giorgio La Malfa scelse il centrosinistra». Come a dire: coi ‘comunisti’ non ci sto «perché sono la conservazione». Mentre Berlusconi, a suo dire, era il nuovo, la modernità. Punti di vista. Il battesimo di fuoco nel 1996. Giuliano Ferrara decide di combattere, nel rosso Mugello, la candidatura di Antonio Di Pietro, fortissimamente voluta da D’Alema e Veltroni. Missione impossibile.

DENIS si butta nella mischia e il fondatore del Foglio ricorda: «L’ho quasi rovinato. Lo introdussi nel circuito di Berlusconi, lui repubblicano storico e uomo della provincia moderata. Fece una splendida carriera in FI e nel Pdl, partendo dalla conquista della Toscana, finendo braccio destro del comune amico, semplice deputato che faceva i deputati, non ministro che faceva i ministri». Già, i ministri. Uno dei suoi colonnelli ammonisce: «Lo dipingete come un mostro affarista. Cinico e baro. E invece non ha mai voluto fare il ministro».
VABBÈ, direte, giudizio di parte. Eppure, anche esponenti ‘rosso antico’, che non stanno con Renzi, sono tutt’altro che feroci con lui pur non amandolo: «Diciamo la verità – confessa, anonimo, uno dei pochissimi dalemiani rimasti –. Verdini è spregiudicato. Troppo. Però, ha capito che Berlusconi è finito e che si apre uno spazio da riempire. Aspettando un Maradona del centro tale da potergli offrire una robusta dote».
Altra voce dal sen fuggita, al contrario, sostiene «che non è uno stinco di santo, ma un organizzatore nato». Ha fatto il Patto del Nazareno. Sarà intervenuto in Aula in una o due occasioni. Anzi: una volta fu espulso da Pier Ferdinando Casini. L’accusa di essere un pianista ancora gli brucia. I figli lo canzonarono: «Babbo, t’hanno cacciato come uno scolaretto». Babbo come si dice a Firenze. La città di cui, sostiene, «mai potrò diventare sindaco. Io divido, non unisco». Frase civettuola, dicono i suoi: «Ancora tantissimi scapperanno da Forza Italia per venire nell’Ala». L’inutile minoranza Pd, insomma, è avvertita. Il «macellaio» taglia la carne. A fettine. E in silenzio.