C’È TRAFFICO nella Capitale. Un traffico caotico, si sa. Un traffico che provoca anche molti incidenti, più o meno gravi. Metafora semplice per descrivere il clima da romanzo politico (genere letterario assai diffuso a inizio Novecento, altro che House of cards) a Roma. Tutti aspettano. Oppure fanno finta che stia per cominciare una nuova fase. Come Stefano Esposito, senatore che di romano ha pochissimo, ma che Ignazio Marino aveva piazzato nel delicato ruolo di assessore ai trasporti (vero incubo quotidiano dei romani): «Nulla è cambiato per il Pd – scandisce –. Inutile parlare. Il sindaco non ha ritirato le dimissioni. Io sto ai fatti». Strategie future? Nessuna.

MA IL VERO protagonista (in negativo) è Matteo Orfini. Presidente del Pd, lui sì romano doc, commissario dei democratici dopo la catastrofe di Mafia Capitale, ex dalemiano di ferro passato alla corte di Renzi – con cui però i rapporti si stanno deteriorando ora dopo ora – viene additato da tutte le correnti come il vero responsabile del disastro. «Condotta ondivaga – dice una renziana della prima ora –. Doveva seguire il consiglio del segretario del partito e liberarci di Marino mesi fa». Gli fa eco un dalemiano di lunghissimo corso: «Non ne ha indovinata una. Davvero incapace di gestire una fase così delicata». Attacca anche Stefano Fassina da Nettuno, ex deputato Pd, ora impegnato nella costruzione di qualcosa che sappia davvero di sinistra: «Il primo responsabile del caos in cui versa l’amministrazione di Roma e dell’incertezza sulle prospettive della città è il gruppo dirigente nazionale del Pd. Il segretario e il presidente commissario».
I due Matteo, insomma. Fassina è durissimo: «Per salvaguardare gli interessi forti della città e per paura di perdere qualche postazione di micro-potere, le energie positive del Pd di Roma sono state mortificate, la discussione inibita, le scelte calate dall’altro». Anche qui poche indicazioni pratiche, se non che il rinnovamento dovrebbe giocoforza passare non certo dai democratici. Ma il problema è che, in queste ore confuse e convulse, qualcuno comincia ad avanzare dubbi sul mantra «è tutta colpa di Ignazio», «Ignazio ha ereditato il caos-Alemanno». «Ovvio, riflettiamo – sussurra il dalemiano di cui sopra – sul famoso ‘modello Roma’. Tanto ‘modello’ evidentemente non era visti i risultati».

C’È POI chi cerca di ricollocarsi. Come il deputato ed ex segretario cittadino Marco Miccoli, già dalemiano (ora non si sa bene che), convertitosi al marinismo più spinto che, pure lui, se la piglia con Orfini denunciandone «l’insufficienza». E poi c’è la famosa base. Furibonda. Senza bussola. «Ma come – ragiona un segretario di circolo – non avevano messo in moto Fabrizio Barca per ripulire il partito? E questi sarebbero i risultati. Boh…». Già, Barca. Secondo i bene informati con lui ci sarebbe un premier/segretario (Renzi) parecchio arrabbiato. «Non fatemelo vedere», avrebbe detto ai suoi. Al Nazareno si ragiona sul fatto che il lavoro di Barca altro non avrebbe portato che un devastante danno d’immagine per i democratici.

E GLI ALTRI, la vecchia guardia? Zitti. Goffredo Bettini non parla. Roberto Morassut non si fa trovare. Nicola Zingaretti, governatore del Lazio e astro nascente che non decolla mai, impegnato a farsi notare il meno possibile. «Per forza – sospira un senatore non ascrivibile ad alcuna fazione –: Marino è lì, mica molla. E potrebbe essere molto, molto dannoso per il suo partito». Prove tecniche di lista civica. Già in fase avanzata, sembra. Con un Alfio Marchini che ha cominciato la sua campagna acquisti. Dove? Tra i democratici delusi, ovvio.