«DICONO che, come il dio Crono, Marco divori i suoi figli politici. È un luogo comune. In realtà è l’opposto: sono i suoi figli politici che spesso si ‘cibano’ di Pannella. E, quasi sempre, dopo averlo contestato, raccolgono i frutti di quei loro dissensi», scandisce Valter Vecellio, maggior biografo del leone radicale.

IL ‘giorno dopo’ è doloroso. Le esequie laiche. La tumulazione nella sua Teramo. In molti svelano particolari della vita di Giacinto. Minimo comune denominatore: non era un tipo facile. Sfuriate tremende, rappacificazioni immediate. Ricorda Benedetto Della Vedova, radicale, già col centrodestra di Berlusconi, passato alla corte di Gianfranco Fini nella breve avventura di Futuro e libertà e infine approdato a Scelta civica, sorridente pur nella tristezza: «Se ne uscì all’improvviso con un ‘Tu sei il nulla!’. Tremendo. Era il 2003. Io mi volevo candidare alla segreteria radicale. Cosa che feci. Ma sempre con quella rasoiata in testa». E poi, più nulla: «Macché. Anzi. Pochissimo tempo dopo, una bella spaghettata come piaceva a lui e qualche bicchierino di sambuca…».

CHI INVECE mette l’accento sulla difficoltà di fargli capire certe cose perché testardamente convinto di aver ragione è un (anonimo) dirigente socialista: «Metà degli anni Duemila. Per la precisione il 2005. La nostra delegazione e quella radicale si incontrano per discutere dei vari problemi in vista della creazione della Rosa nel pugno. Beh, Marco s’infuria perché non vogliamo incontrarci di domenica. E che altro possiamo fare? gli diciamo. I nostri parlamentari hanno collegi elettorali da curare. Siamo nel fine settimana! Niente. Lui non ne vuol sapere. E perde la pazienza». L’arrabbiatura, del resto, è cifra costante nell’azione politica pannelliana. Magari il cronista lo chiamava e lui lo prendeva a male parole salvo mandargli un soddisfatto messaggino il giorno dopo. Poi, certo, ci sono le narrazioni tragiche. Esistenziali. Come quella di Rita Bernardini al Corsera. Nel 2000 tra l’ex deputata radicale e il leader c’è uno scontro furioso. Lei prende e sbatte la porta. Ma non straccia la tessera: «Un giorno mi portò nella stanza dell’Ergife e mi inchiodò a una sedia: ‘Devi fare questo e questo’. Io piangevo a dirotto. Non ce la faccio, ripetevo. Io piangevo e lui rideva».
La clava, insomma. Oggi tutti rivendicano la «durezza» come necessaria scuola di formazione (Francesco Rutelli). Il quale, peraltro, racconta come il grande Leonardo Sciascia dovette intervenire personalmente per evitare che candidasse il capo supremo della P2, Licio Gelli…
Eppure, oltre tutte queste testimonianze che ben rendono l’idea del classico ‘genio e sregolatezza’, c’è un punto di fondo che caratterizza anche il Pannella con le sue paure e le sue debolezze: l’incapacità di portare rancore. «Vero – annuisce Marco Taradash, ora nelle file del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano –. A me, quando osai fargli notare che lasciare Silvio Berlusconi nelle braccia di Pier Ferdinando Casini e Fini era una follìa, mi coprì di improperi. Salvo, il giorno dopo, invitarmi a pranzo. Spaghetti? Tantissimi. Quintalate. Ma basta con questa storia del cacio e burro. Gli piacevano moltissimo anche col pomodoro…». Rosso. Come il suo viso quando perdeva la pazienza.

MARCO si dimetteva spesso da deputato. Era un modo per conquistare la scena e tenere alta la tensione sapendo che le dimissioni sarebbero state respinte. Ma una volta, stufi del giochino, i colleghi le accettarono. E lui non ci vide più dalla rabbia. Poche ore dopo, guardava sorridente il cielo azzurro di Roma: «Ma guarda che belle le rondini…».