NON lancia allarmi. Crede nel progetto del Pd. Insomma, Giuseppe Vacca, intellettuale, un inizio con il Fuan (sei mesi nell’organizzazione universitaria di destra che lo portò anche nel parlamentino dell’Ateneo di Bari), un percorso mai interrotto dal Pci al Pd, docente di storia delle dottrine politiche, già parlamentare, presidente della Fondazione Gramsci, non si scompone. E parla di referendum e di sinistra. «Sì, ma sia chiaro: io sto in mezzo alla gente. Sono iscritto al Pd, sezione di piazza Verbano a Roma, e darò il mio contributo affinché prevalgano le ragioni del Sì». Vacca sarà responsabile del comitato per il Lazio.
Professore, lei si converte…
(risata fragorosa) «No, la mia conversione è antica. E in linea col mio impegno. Voglio dire che non esiste frattura tra l’essere stato segretario regionale dei Ds pugliesi dal 1999 al 2003 all’aver aderito al progetto del Pd».
Davvero questa riforma semplifica il sistema?
«Non mi faccia fare il professore, però, diciamola tutta, sulla parola ‘semplificazione’ la stiamo facendo un po’ lunga. La usiamo a sproposito, per usare un eufemismo. Passare da due Camere a una non mi pare poco. Specie in un sistema che, nel rapporto Stato-Regioni, ha sofferto di una sovrapposizione di competenze che è una delle cause della stagnazione del Paese».
E se vince il Sì?
«L’importante è arrivare a un obiettivo preciso: un arricchimento della ragione. Mi spiego: più corali saranno le ragioni del Sì o del No in caso di vittoria, meglio sarà per il Paese».
Se vince il Sì vince il Partito della Nazione.
«Sbagliato. Vince Un Partito della Nazione. Nel senso che non viene smorzata la pluralità delle opzioni politiche. Non dimentichiamo la lezione di Togliatti».
Perché «un» solo partito della Nazione? Dall’altra parte c’è qualcosa?
«C’è molto: uno schieramento che vuol disfare l’Europa. Attenti a non banalizzare. I Matteo Salvini non stanno solo in Italia, ma in tutt’Europa. Tutto sommato l’Italia non è messa peggio della Francia».
Insomma, «Allegria!»…
«No. Anzi. Dobbiamo tener presente che l’Europa è circondata da un anello di fuoco che può portare alla Terza guerra mondiale. Si tratta di gestire una serie impressionante di emergenze tenendo conto di quel che può fare il Vecchio Continente».
Con un Pd che passa il tempo a discutere se i partigiani Berlinguer o la Iotti o Ingrao avrebbero votato «Sì»?
«No, con la consapevolezza che la lezione di Palmiro Togliatti e del suo Memoriale di Yalta ci possono insegnare ancora molto».
Il referendum costituzionale di ottobre interviene in una fase di crisi dei partiti.
«Sicuro? Se intendiamo per ‘crisi’ un modello come quello che ha caratterizzato il Paese tra il 1948 e gli Ottanta, si deve parlare di modello che non esiste più. Poi, meno risorse, diversa identità».
E via col partito pigliatutto…
«Questa è una boutade. Mi par chiaro, e anche qui vale la lezione di Togliatti, che, se vuoi vincere, devi prendere i voti di quanti più elettori possibili».
Soddisfatto del prezzo del biglietto pagato al teatrino della politica?
«Che cosa pretendeva con questa narrazione mediatica? Meglio pensare al referendum. E a un grande ‘apprendimento collettivo’…».