MA CHE briccone quel Dumas. Faceva lo scrittore. Amava il buon vino. Non disdegnava avventure galanti a ogni pie’ sospinto e, orrore!, per di più era anche anticlericale. Peccato gravissimo nella Francia dell’Ottocento (a dire la verità un po’ in tutta Europa, però è un altro paio di maniche). E allora, che si fa? Si censura. Si taglia. Gli si consiglia caldamente di non esagerare. Specie se l’Autore è amico di quel mangiapreti di Giuseppe Garibaldi, uno che, tanto per dirne una, voleva fondere le campane delle chiese per farne moneta sonante onde eliminare «quel sudiciume della cartamoneta, causa di mille infezioni».

IN TAL SENSO, e in attesa di una traduzione italiana, fa davvero venire l’acquolina in bocca l’operazione letteraria di Claude Schopp, specialista dell’autore dei Tre Moschettieri. Lo studioso, infatti, ci ripropone Un cas de conscience (Un caso di coscienza), feuilleton di raro valore, uscito a puntate sul giornale Le Soleil nel 1866 e da poco pubblicato in volume in Francia dall’editore Phébus. Alcune pagine di questo romanzo breve furono tagliate perché, appunto, troppo ostili al potere temporale del Papa. Attenzione: l’anno è il 1866, a Roma impera ancora Pio IX (morirà nel 1878, anno della dipartita anche di Vittorio Emanuele II), sempre più reazionario e insensibile alle richieste di rinnovamento morale e sostanziale di quella Roma che, nel 1870, sarebbe poi finalmente diventata italiana. Il lavoro di Schopp è filologicamente impeccabile: le parti censurate e omesse sono segnate in rosso, in modo da offrire al lettore il contesto della storia narrata.

IL PROTAGONISTA è un cane (grande cinofilo era Alexandre), un bloodhound, un “canis lupus familiaris”. Quello, insomma, affettuosissimo e con quegli orecchioni che ispirano subito tenerezza. Il bello è che il protagonista si chiama Mustang e il suo padrone Edward Seyton Hugh. Non uno qualunque. È infatti volontario nella Spedizione dei Mille, la storia più bella dell’Ottocento italiano, quando un manipolo di camicie rosse (1.089, per l’esattezza, ma recentemente il numero è salito a 1.091…) restituì la libertà al Sud, salvo essere messe in un cantuccio a vittoria avvenuta.
Il romanzo è, per dirla con lo studioso, un capolavoro di ironia, un gioiello di humor. L’originalità di Dumas sta «nel virtuosismo narrativo al servizio di un profondo impegno politico». Parole sagge (dire ‘sante’ ci parrebbe fuori luogo…). Sì, perché Dumas e Garibaldi sono una coppia perfetta. È noto ma non inutile ricordare come lo scrittore francese sia stato uno dei curatori più divertenti di quella che, in fondo, è l’opera più bella di Garibaldi, le Memorie, che gli furono consegnate personalmente dall’Eroe dei Due Mondi. Non solo: Dumas scrisse anche un aureo volume sulla Spedizione dei Mille intitolato I garibaldini.

INSOMMA, il legame tra i due fu solido e questo spiega, al di là della fama del Generale, perché Alexandre non perdeva occasione per ricordare il suo amato eroe.
A dire il vero, l’uomo fu oggetto anche di scherno e ironia. Specie dal memorialista più noto: il giornalista di Gavorrano ma naturalizzato livornese Giuseppe Bandi. Il quale ne I Mille da Genova a Capua scherza sulla sua amante diciottenne a Palermo in piena epopea garibaldina e descrive lo scrittore come un crapulone: «Quando compare in tavola la zucca delle monache, il grand’Alessandro fece tanto d’occhi, e se ne cacciò in bocca una gran fetta; poi si dié a cantarne il magnificat, e tanto l’ebbe commendata, che il generale la fece riporre in un cartoccio e tutta gliela offerse perché la portasse seco». Lui, lo scrittore più letto di tutt’Europa, che, in crociera nel Mediterraneo aveva voluto raggiungere Garibaldi. Lui, lo scrittore che aveva assistito alla battaglia di Calatafimi.
Piangendo per la commozione nel vedere quel pugno di eroi battersi contro il ben più forte esercito borbonico. Ma, si sa, le idee son più forti delle baionette..