I GIOCATORI si scaldano e la partita per conquistare la maglia numero uno del Pd può cominciare. Michele Emiliano picchia duro. Matteo Renzi, per ora, resta silente (o fa dire qualcosa ai suoi). Il neocandidato Andrea Orlando sceglie il profilo ortodosso. E lo fa da Genova, sala Sivori, ove fu fondato il Partito socialista nel 1892, il Partito dei Lavoratori italiani, (oggi invece sarà a casa alla Spezia). Non sibila cattiverie contro «compagni e amici», non le manda a dire a populisti di varia natura saldamente ancorati a destra. Però il neocandidato frecce ne scaglia eccome. E fanno male.
Renzi vola negli States? «Legittimo. Ma poi ha detto che va perché quelli intanto stanno a litigare. Come se quella non fosse la comunità che ha diretto qualche settimana prima». Poi, l’analisi nel merito: «Vuole capire il perché dei populismi e va in California. Io penso – è la stoccata – che sarebbe dovuto andare nell’Ohio o nel Michigan. Là, dove gli operai hanno votato Trump. Non la Clinton. Là, dove si è rotto il rapporto tra forze di progresso e popolo». Io, ragiona Orlando, adotterò una strategia diversa «e andrò a Scampia, allo Zen, a Cornigliano, a Quarto Oggiaro. Dobbiamo ripartire da lì», vale a dire dal disagio urbano, dal malessere delle periferie.

ORLANDO ne ha anche per Emiliano. Che è fra i… colpevoli della sua decisione di correre per la segreteria: «Mi sono candidato anche per le parole di Michele. Quando ha invitato a votare in questo modo: ‘Di qualunque partito siate, venite a votare contro Renzi’, ho capito che il congresso si trasformava in lotta greco-romana. Anzi, visto l’invito all’esterno, in lotta libera». Il che ha una conseguenza: «Non mi candido contro nessuno», ma per aiutare il Pd a uscire dalle secche post referendarie. Esce fuori tutta l’anima di uomo che crede nella forma-partito oltre ogni cosa: «Ci siamo occupati di quando si deve votare. Poi, di quando fare il congresso. Ma non dei programmi. Siamo diventati il partito del calendario».

SUCCESSIVO ammonimento: «Pensiamo di andare avanti con una conta permanente? Se il Pd perde pezzi, qualunque pezzo sia, diventa un’altra cosa. Rifiuto l’idea di dovermi presentare per fare la sinistra del Pd. Io voglio fare il partito come diceva il progetto iniziale. Siamo partiti da Pci, Dc, Pri, socialisti e quelli nati dopo. Anche Virginio Rognoni (antico esponente della sinistra dc, ndr) mi ha telefonato per dirmi di andare avanti: ‘Se diventa una rissa perde il Pd’». Con altra stoccata a Renzi, seppure indiretta: «Non ci potremo più affidare all’idea che a tenerci insieme basterà un leader. Serve un leader, serve una comunità» (parola fondamentale nel lessico orlandiano). Altro elemento che lo ha spinto a candidarsi «il primo risultato del congresso: una scissione. Sbaglia sempre chi se ne va, ma vedere che tanta gente era contenta mi ha spinto a candidarmi. Ho sentito dire ‘siamo più leggeri, andiamo più veloci’. Il problema è che non si sa dove andiamo più veloci».
Altro capitolo, letto con sguardo ironico, sui suoi presunti sponsor: «Credo – sostiene il Guardasigilli – che, come me, l’ex presidente Napolitano non volesse e ritenesse inopportuno questo congresso. Ho letto all’inizio che dietro di me c’era Renzi. Poi ho letto di Napolitano. Sono le persone che mi hanno chiesto di candidarmi. Sono quelle per cui farò questa battaglia».

PER QUALIFICARE e certificare la sua possibile leadership, Orlando usa parole forti contro Matteo Salvini. Il leader leghista si schiera coi dipendenti di un supermercato, indagati per sequestro di persona per aver rinchiuso in un gabbiotto due rom e aver pubblicato il video su Facebook? Non va: «Possiamo accettare che due persone che chiudono due nomadi in una gabbia abbiano il plauso» di Salvini «senza che nessuno del nostro partito dica qualcosa?» (subito bacchettato dal renzianissimo David Ermini). E su Donald Trump: «Possiamo accettare così silenziosi» le parole sul riarmo del presidente Usa? Cinque, sei sette anni fa saremmo scesi in piazza…». Insomma, Orlando vuol giocare sino in fondo. Anche perché il risultato del referendum del 4 dicembre è ancora lì, ha raccolto «disperazione e rabbia sociale». Due problemi enormi. Da affrontare. Quanto prima.