I gesti lenti. Il sorriso appena accennato. Leonardo Gori accarezza con mano sicura le bozze: in gergo si chiama ‘secondo giro’ per indicare che il libro è quasi a compimento. E accarezza, stavolta con lo sguardo, la copertina – un bellissimo acquarello di Francesco Chiacchio – di Non è tempo di morire. Con Bruno Arcieri (sì, chiamiamolo così: l’eroe) che stavolta è alle prese con il 1969, con la strage di piazza Fontana. E con una storia che può riservare ancora qualche sorpresa, nonostante la sua compiutezza. Gori ci riceve nel suo studio, il sole non si vede. È l’alba. Non il massimo per il giornalista… «Vero, ma non mi sento in colpa – ride divertito lo scrittore fiorentino – perché questa è l’ora migliore. Lo sente il silenzio? Non si accorge di come tutto è più normale? Come è tutto molto molto più facile?». No, francamente il giornalista fa fatica a capirlo, ma coglie al volo quello che Gori ci rivela: il suo laboratorio letterario. Lui, il ‘finto giallista’, che ci ha regalato romanzi conditi di Storia (frase retorica però funziona sempre: quella con la «S» maiuscola) e storie. Dalle avventure di Bruno Arcieri, che da sbirro diventa spia attraverso mille peripezie, all’indagine del granduca Pietro Leopoldo a fine Settecento, al Machiavelli che scopre i lati più oscuri della sua terra. «Vero, le classificazioni di genere – dice Gori – sono spesso sbagliate o, meglio, riduttive. Mettiamola così, e lo dico per non espormi più del dovuto: a me piace scrivere il romanzo ‘di tensione’ non avulso dalla realtà storica».
Gori lei per chi scrive? Per adolescenti, uomini di mezza età, zie che sorseggiano il tè tutti i pomeriggi, donne in carriera?
«Si fermi. Io scrivo per tutti, spero (altro sorriso). Comunque sì, a parte gli scherzi, credo che il mio pubblico abbia un’età media, non giovanissima. Ciò detto, non ho elementi per dire chi mi legge. Anche perché non faccio analisi di mercato. Non spetta a me. Io le storie, come dire, me le racconto».
Però poi le pubblica…
«Certo. Anche perché, finalmente, ho trovato il ‘mio’ editore (Tea ndr). Quello che mi fa star bene».
Bene, ma se pubblica vorrà anche che qualcuno legga.
«Certo. E oltre a leggere vorrei si emozionasse. Quello che conta è una comunicazione d’amore. Una specie dipatto col lettore».
Manuel Vàzquez Montalbàn, autore del celebre Pepe Carvalho, sosteneva il diritto alla felicità del lettore.
«E io sono d’accordo con il grande scrittore catalano. Con un’aggiunta, per me molto importante: il diritto alla felicità è anche del narratore, di chi intinge la penna nel famoso calamaio».
Lei intinge anche la penna nelle pentole. Non avete paura di diventare ripetitivi con tutte questi cibi esibiti, con tutto questo ‘Masterchef’ letterario?
«No, affatto. E poi, se mi permette, Masterchef letterario è definizione che non vale per me. La respingo con cortese fermezza. Vede, Bruno Arcieri ha subito un’evoluzione rispetto al primo romanzo, rispetto al quel Nero di maggio ambientato nella Firenze del 1938 tutta agghindata per accogliere Hitler. Prima c’era come un vetro che lo separava dal lettore. Ci raccontava poco della sua personalità, accennava appena a qualche sentimento. Adesso, invece, forse perché siamo invecchiati sia io che lui, scopriamo molte cose. E quindi scopriamo anche come cucina».
Nell’ultimo romanzo, ambientato nel 1969, ha 67 anni.
«Sì, ne aveva 36 quando cominciai a raccontare le sue storie. È nato nel 1902. Prima è un carabiniere, poi entra nei servizi segreti. Passa attraverso gli anni della guerra e della Resistenza. Matura una coscienza politica e…».
Di che partito era?
«Non provochi… Diciamo che è su posizioni vicine al partito d’Azione. Però mi faccia finire. Mantiene sempre il suo rigore morale e lo ritroviamo nella Firenze dell’Alluvione, 1966. Poi, ancora, si misura col Sessantotto e con la strategia della tensione. Nel frattempo, rischia la morte, fa amicizia con Bordelli, il commissario Bordelli del mio amico scrittore Marco Vichi, conosce i ‘capelloni’…».
Ne combina di tutti i colori, insomma.
«Nessun dubbio, non può stare lontano dall’azione».
Però invecchia. Morirà?
«Allontano il problema. Anzi: per ora non me lo pongo. Diciamo che devo raccontare. E diciamo anche che i lettori si saranno accorti che dagli anni Quaranta ai Sessanta quasi nulla si sa di Bruno».
Ha tra le mani Musica Nera. E la nuova ristampa?
«In libreria. Però più che di ristampa parlerei di nuova edizione».
Non ci dica che cambia la trama di uno dei suoi libri di maggior successo!
«Gli anni passano. Si cambia. E qualche mutamento c’è anche nella scrittura. Il che non vuol dire stravolgere tutto, sia chiaro».
E gli altri volumi della saga arcieriana?
«Saga… non male. Tea è pronta a rimetterli tutti in circolo».
Ci tolga una curiosità: perché è così poco affezionato a I delitti del mondo nuovo che raccontano di un granduca-detective del Settecento?
«Ma non è affatto così. Sono molto affezionato a quel romanzo. E chissà che prima o poi non venga riproposto».
Forse era per un pubblico troppo alto?
«No, non direi ‘alto’. Certo, non digiuno di conoscenze storiche. Curioso dei fatti di Toscana».
Torniamo ad Arcieri. C’è Firenze sullo sfondo.
«No, abbia pazienza, Firenze è protagonista, né più né meno di Bruno. Ma anche Milano è protagonista. Milano: una città che con Firenze ha rapporti storicamente fittissimi, come nel caso diSant’Ambrogio. Certo, in questo caso entra in campo anche un fattore autobiografico. Amo Milano perché capitale dell’editoria, perché sono un divoratore di carta».
In Non è tempo di morire il finale è apertissimo…
«Però la storia è compiuta. Rimane aperta una finestra, certo. Una. Che presto vedrete. Però mica sono un sadico. Nulla rivelo».
Ma come mai non ci sono mai scene di sesso? Tutti gli editori le vogliono.
«Questa storia mi giunge nuova. A me nessuno me le ha mai chieste. Forse qualche autore le inserisce perché, furbescamente, spera di ottenerne vantaggi».
Il sole è sorto da un bel pezzo. Non è più l’alba. «E io, se non mi sbrigo, rischio di arrivare tardi al lavoro…». Comincia un’altra storia. Di vita quotidiana. Magari senza aver fatto nemmeno colazione.