Dunque: se ho ben capito ci sono due amici di antica data.

Uno, Vincenzo, è siciliano.

L’altro, Fabio, è quasi siciliano.

Nel senso che Vincenzo ha sempre vissuto, lavorato, amato eccetera eccetera in terra di Trinacria, mentre Fabio ha costruito il suo mito esistenziale e letterario per la sua famiglia d’origine che, dopo vicende più o meno avventurose, ha costruito una “piccola Sicilia” in quel di Roma.

Su questa base nasce e vive l’«epistolario narrativo» dal titolo I ricordi hanno le gambe lunghe.

Prima annotazione: trattatasi di citazione all’incontrario («le bugie hanno le gambe corte», ovviamente) e la sottolineatura è necessaria perché il libro, metà romanzo metà memoria, è denso di citazioni ed autocitazioni. E qui, se ho ben capito, entra in scena uno degli attori protagonisti: la letteratura. Amata come poche altre cose e declinata come paradigma assoluto di pensiero e azione.

Dal chevero: sono un po’ pedante, ma il ‘contesto’ è fondamentale per capire che cosa vogliono dirci i due – deriva il quarto punto: Vincenzo e Fabio hanno formazioni diverse e gusti diversi. Con conseguenti cifre stilistiche opposte se non confliggenti.

Stassi si cala in pieno nel ruolo di “scrittore” pescando – e lo scrive di sfuggita lui stesso – dal realismo magico sudamericano e da un qual certo intimismo familiare, diretta espressione di quello che una volta si sarebbe detto “il proprio vissuto”.

Di Pasquale, al contrario, ci offre una serie di divertenti e dolceamari medaglioni insaporiti con un macchiettismo degno del miglior giornalismo letterario (penso ai ‘fogliettoni’ ottocenteschi delle ‘gazzette’).

Proprio per le ragioni su accennate, adesso bisogna che vi dica che cosa ho appreso su Stassi e Di Pasquale. Stassi è un bibliotecario. Di Pasquale un maestro (rara avis). Stassi ci informa che, sin dalla più tenera età (sette anni, mi pare) voleva fare lo scrittore pur vivendo in una casa senza libri. Di Pasquale ci dice di aver sognato a lungo i campi di football (tifoso dell’Inter, vabbè nessuno è perfetto, il suo idolo era Jair) e poi il giornalismo (essendo di Castellammare del Golfo, in quel trapanese una volta ad altissima densità mafiosa, ne ha viste e raccontate di tutti i colori). Il macchiettismo di Vincenzo non impedisce però all’autore di delineare con certissima forza espressiva le paure e le speranze di tante donne e di tanti uomini: un ‘fiume affettivo’ che, in più occasioni e quando meno te l’aspetti, sgorga dalle pagine come un spruzzo di lava coloratissima e spettacolare commuovendo e divertendo al tempo stesso.

Poi, so per certo che sia Stassi che Di Pasquale sono scrittori già noti. Stassi appunta molte medaglie al petto, tutte minuziosamente elencate nella biografia che trovate agevolmente su Wikipedia. Tra questa, l’esser stato finalista al Campiello e vincitore del prestigioso Scerbanenco con La lettrice scomparsa, di fattura tutt’altro che artigianale. Il lettore mi passi il piccolo inciso. Nella mia richiesta di informazioni su Stassi ho saputo da un suo amico di tempi lontani ed ex parente che la sua considerazione per il ‘giallo’ era pari a zero. «Per fargli leggere Chandler feci una fatica boia trent’anni fa», mi ha detto scuotendo la testa. Il che dimostra che non bisogna, come dire, disperare mai. Inoltre, Stassi è noto per L’ultimo ballo di Charlot (Campiello, appunto) e Come un respiro interrotto, entrambi pubblicati con un editore palermitano molto alla moda.

In realtà, la sua opera migliore e, secondo me, non sufficientemente considerata dalla critica, è Fumisteria, dove davvero la sicilianità si respira in ogni parola: è stata ristampata due anni fa dal noto editore palermitano e ve ne consiglio caldamente la lettura.

Di Pasquale è noto per varie opere, non tutte strettamente letterarie. Su tutte l’inimitabile e autobiografico Ignazia, stampato da un editore romano assai di moda nelle cronache culturali. Anche in questo caso vi consigliamo di leggerlo. Di Pasquale ha poi pubblicato libri sui misteri siciliani, Un’estate a Palermo, Un’isola chiamata zingaro e altro.

Ciò detto, vi avverto: il romanzo epistolare dei due amici del raffinato editore alcamese Ernesto Di Lorenzo (www.ernestodilorenzoeditore.it) va letto per un motivo forse banale, ma a me assai caro: è divertente. Il lettore, ce lo insegnano alcuni giganti come Alberti, Montalbàn, Sepùlveda ha diritto alla felicità, al piacere della lettura, alle parole scandite con cura e scelte con sapienza narrativa. E non voglio dire che l’“intrattenimento” sia scevro da momenti drammatici o tristi. Basta scorrere le pagine di Stassi. Su di lui – se ho ben capito – grava tutto il peso di una famiglia infinita tra genitori, nonni, zii emigrati in ogni parte del mondo, zii finto-siculi saldamente romani (romaneschi?), cugine, cugini. Con un minimo comune denominatore: la presenza ossessiva della malattia – terribili le pagine dello zio che sta sempre chiuso in casa a fare il ciabattino – e l’ossessiva attenzione riservata ai libri.

Ovviamente, mi è impossibile lumeggiare tutte le pitture di Stassi. Ma mi piace segnalare la figura dello zio Nelson, il letterato di famiglia. Stassi lo adora, per lui è un modello: «Contrassi con lui un debito inestinguibile» perché, in sostanza, educa il giovanissimo nipote alla lettura. Il problema è che anche questo zio, di nome Nelson, vuol fare lo scrittore. Con esiti, a dir poco, disastrosi: «Ma con una sorta di grandiosità – scrive Fabio –: non uno scrittore fallito qualunque, il più fallito di tutti». E non è finita perché quando finalmente Nelson scrive una roba leggibile e fresca, o tale considerata da un editore milanese assai di moda, per ragioni legali il romanzo va al macero! Lo zio, inoltre, piace molto alle donne. E si ripropone di avere una ragazza per ogni lettera dell’alfabeto. Sarà vero? La nostra speranza è che sia un’invenzione letteraria, da cui peraltro Stassi si guarda bene dal prendere le distanze. Il che, per un bacchettone come me, non è bello. Da non perdere il ritratto della madre. Contagiosa la sua allegria, straziante e commovente il suo addio alla vita. Una donna, se ho capito bene, indimenticabile per la sua entusiasta voglia di vivere.

Sul fronte Di Pasquale, invece, ci preme sottolineare l’autoironia di fondo che caratterizza le sue storie. Splendida la figura del giovanissimo che vuol fare il calciatore e si tinge la faccia di nero per assomigliare a Jair. Emozionante la secca descrizione della scelta lacerante tra fare il giornalista o il maestro a Marettimo. Divertente come poche altre scene il capitolo dedicato (si vedano le pagine 36-43) a un Clarinetto suonato dal vento, ove una serenata all’amata si trasforma in un irresistibile concerto jazz che fa infuriare il padre dell’agognato amore e che avrà conseguenze per il resto della vita dei protagonisti. Commovente la vicenda del cane Terri scampato al terremoto. E molto altro ancora. Mi fermo qui (per lo meno nell’edizione on line, sulla carta sarò più conciso, tranquilli…).

Però, un finalino me lo dovete concedere perché ho elogiato troppo questo libro. E, come ogni recensore che si rispetti, devi dare anche qualche notazione più critica.

La prima all’editore. Io sono un grande fan di Ernesto Di Lorenzo. Il suo catalogo è davvero bello e anche come scrittore Di Lorenzo non è affatto male come ho evidenziato anche recentemente. Però, l’edizione del libro della coppia è troppo sopraffina. Si tratta di un libro pop, divertente e divertito, non c’era bisogno della copertina cartonata o della carta pregiata. Insomma: meno raffinatezza, più nazional-popolare.

Per Stassi. La poetica del pendolare (l’Autore scrive sui treni) è un mantra doloroso per il quale occorre rispetto. Ma non può essere declinato in tutte le (oramai molte) opere. Meglio concentrarsi su pennellate bellissime come l’addio alla casa di Trastevere. Altro suggerimento: Stassi è ormai affermato. E quindi non ha più bisogno, a parte quando si spiega il perché di questo dialogo con Di Pasquale, di dire a ogni pie’ sospinto che la letteratura è la sua vita. Vorrei vedere il contrario. Così come eviterei l’«immergersi in quella lettura»; «che si impressero per sempre nella mia memoria»; «lo custodisco ancora gelosamente»; «riavvolgere indietro il nastro e far ripartire il tempo».

Per Di Pasquale. Sarebbe l’ora che mettesse mano a un romanzo con tutta la marea di gente che ha conosciuto, descrivendone, con tutta la grazia stilistica che gli è propria, i tic e i vizi più divertenti. In tutte le sue opere, Di Pasquale ci fa assaporare pietanze gustose, ma ci lascia sempre con l’acquolina in bocca.

Per Stassi e Di Pasquale. Va bene amare il football da giovani, ma ora basta. Non è affatto una scuola di vita o una metafora della stessa. Soriano o meno, si tratta di merce venduta a caro prezzo e di scarsa soddisfazione.

Mi spiace finire, ma… a tutto c’è un limite. Anche a un libro così ben fatto. Dedicato a un amico che se ne è andato. E che, e questa cosa l’ho capita benissimo, doveva restare in mezzo ai suoi amici.