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La follia in giallo (francese)

Pierre Lemaitre è un maestro. Già professore di letteratura, arriva tardi a quella che la biografia nel risvolto di copertina definisce “carriera di scrittore e sceneggiatore”. Aggiungo che, anche se tardi, a questa carriera ci arriva bene (tutta invidia, la mia). Vince, nel 2013 il Goncourt, ma soprattutto scrive romanzi bellissimi. Il genere è il polar, ma a me dei generi (e dei premi letterari) preme il giusto. L’importante è andare in libreria, comprare il romanzo e restare incollato alla poltrona. Incollato è la parola giusta anche per L’abito da sposo (edito nella collana, insuperabile, “Darkside” di Fazi), thriller che più thriller non si può. Che ti tiene avvinghiato alle pagine in un delirio di follia solo all’apparenza inspiegabile. Perché, pare essere il messaggio ultimo del nostro amico parigino, alla fine una soluzione c’è sempre.

La trama, che si snoda in una Parigi cupa e ostile, è semplice: Sophie, la protagonista, ne ha passate di tutti i colori e, dopo varie disgrazie, che non vengono rivelate subito, fa la baby sitter a Léo, figlio di una coppia di agiati parigini. Il problema è che una mattina, svegliandosi, Sophie trova Léo morto. Assassinato. Ovvio, lei è la colpevole. O, quantomeno, lei è la sospettata numero uno. Il problema è che non può solo fuggire, ma deve uccidere ancora e cambiare identità. Ma perché uccide il bambino? Perché altri due delitti? Sophie non sta bene. Soffre di amnesie. Spesso crede di aver fatto cose in un certo giorno, poi scopre che non è così. Lo psicologo la rassicura (detto fra noi questo psicologo non è granché). Vincent, il marito, è sconcertato. Le amiche si allontanano. Il lavoro, in cui Sophie eccelle, diventa qualcosa di impossibile da portare avanti. E qualcuno, da fuori, la segue. Si impossessa di lei. E qui metto un freno perché se no Lemaitre e la casa editrice vengono e mi riempiono di insulti. Vi ho detto già abbastanza. Occhio, ultima avvertenza, che il finale non è scontato in un crescendo di emozioni e angosce molto, molto parigine. Come colonna sonora sarebbe andata bene quella di Frantic, il film con Harrison Ford e l'irresistibile Emmanuelle Seigner.

In generale, anche se c’è il solito discorso della traduzione (in questo caso di un Giacomo Cuva in ottima forma), gli elementi che depongono a favore di questo romanzo – non posso definirlo “capolavoro” se no mi dicono che esagero con le lodi, ma capolavoro è – sono molti. La scrittura è ben levigata, secca, perfetta per il genere che Lemaitre rappresenta così bene, il polar appunto (chi non rammenta l’immortale Irène?). Non cede a nessuna ricercatezza, è l’elogio della sintesi.

Poi, come dico poche righe più su, il contesto, l’ambiente. Parigi è bella. Inquietante e terribile anche quando c’è il sole. Insomma, è Parigi (anche se io amo più Marsiglia e Bordeaux, questione di gusti) con i suoi boulevard e i suoi palazzi. E Lemaitre la descrive da par suo, senza ammiccamenti da cartolina.

Divertenti le citazioni che l’Autore mette fra le pagine, quella su Stefan Zweig è fantastica (e andate a vedere chi era Zweig...).

Assai ben tratteggiati i personaggi, con le loro paure e le loro speranze. Molto rassicurante (e non è poco in un romanzo così poco rassicurante) il padre di Sophie. E anche la madre che, pur morta, riveste un ruolo in un certo qual senso decisivo.

Non mancano scene di sesso esplicito, descritte con malata naturalezza da uno dei protagonisti (o forse il vero protagonista?).

Per farla breve: un romanzo da leggere assolutamente, specie se amate la Francia, se siete innamorati di Parigi ma sapete che, forse, non è tutto quel che sembra. Frase criptica, lo so. Essenziale, però, perché... perché lo capirete dopo aver letto queste pagine.

Francesco Ghidetti

 

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