NAPOLITANO, da ieri ex presidente della Repubblica, è stato il garante morale del rispetto del disegno europeo da parte di un’Italia considerata, spesso a torto, inaffidabile. Una sorta di scudo umano contro i siluri schierati da partner internazionali e mercati. Prevedibile, quindi, che il prossimo inquilino del Quirinale possa trovarsi nella stessa durissima situazione. Prevedibile, altrettanto, che questa possibilità incida nella scelta tra un presidente rispettato dall’opinione pubblica, ma puro arbitro tra le forze politiche, e un presidente autorevole per i mercati e per gli alleati non solo europei, ma potenzialmente più interventista in caso di necessità. Vero è che, specie nel caso del Colle, l’abito aiuta a fare il monaco, ma sarebbe illusorio ritenere che il nuovo presidente della Repubblica abbia davanti a sé un quadro più morbido di quella che portò, due anni fa, in stato d’emergenza istituzionale, alla rielezione di Napolitano. La situazione resta grave, non solo per l’artiglio del terrorismo islamico sull’Europa, ma ancora una volta per ragioni economiche: la flessibilità sui conti pubblici strappata a Bruxelles può apparire, e in certa misura è, un successo del semestre italiano, ma in cambio l’Ue vuole le riforme che chiede da sempre.

GLI ESAMI di novembre sulla manovra sono stati spostati a marzo, non superati. L’allentamento dei vincoli del fiscal compact concede al governo spazi di manovra maggiori e fino a poco tempo fa impensabili, ma Renzi, per poterli utilizzare, dovrà riuscire a completare le riforme già incardinate: dal lavoro alla giustizia, dalla semplificazione amministrativa e fiscale all’uscita dal bicameralismo. Riforme che hanno bisogno di una maggioranza iper sensibile agli equilibri che andranno a formarsi per eleggere il nuovo capo dello Stato. Queste e non altre sono le carte servite da Bruxelles ed è la stessa mano di sempre, senza sconti per i bari ma neppure per faciloni, sprovveduti e Paesi obbligati a correre con gambe legate dai lacci interni della poca crescita e dell’alto debito e dai lacci esterni dei trattati sottoscritti. Questi ultimi oggi resi meno stringenti dal deteriorarsi del quadro economico europeo, e dalle azioni della Bce, più che da incisive svolte politiche. Quanto a crescita e debito, invece, se sulla ripresa del Pil non mancano i segnali positivi e sono alte le aspettative sugli effetti del Jobs Act, non si può dire altrettanto per un debito pubblico che ha ricominciato a crescere e ha toccato, dati di ieri di Bankitalia, i 2.160,1 miliardi di euro, 2,6 miliardi in più da ottobre e poco al di sotto del record assoluto di 2.168 miliardi toccato a giugno.

 

Pubblicato su Qn mercoledì 15 gennaio 2015