A VOLTE basta trovare la chiave giusta. Giovanni Bottegoni, 38 anni, l’ha trovata: si chiama Biki. Assieme ad altri quattro ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia ha creato un software che permette di accorciare i tempi per sviluppare un farmaco, individuando appunto la chiave giusta per aprire o chiudere la serratura delle diverse molecole. E subito sono fioccati i contratti con le grandi case farmaceutiche.
Biki Technologies, di cui lei è amministratore delegato, è la prova che anche in Italia si può guadagnare con le start up…
«Assolutamente sì. Dalla ricerca si può creare impresa e profitto».
Chi ha finanziato la start up? Sono stati coinvolti dei privati?
«L’IiT ci ha dato un finanziamento iniziale a fondo perduto di qualche centinaia di migliaia di euro e le strutture per l’incubazione. La srl è nata nel maggio 2014, a inizio 2015 sono arrivati i primi contratti. Tecnicamente, abbiamo già recuperato l’investimento iniziale e Biki cammina sulle proprie gambe senza bisogno di ricorrere a venture capitalist».
Clienti italiani o stranieri?
«Qualche italiano, ma soprattutto le big pharma estere. Si tratta di contratti di licenza annuale, consulenza per l’uso del software e sulla ricerca dei farmaci».
Che cosa fa esattamente Biki?
«È un software che unisce elementi ingegneristici e competenza biomedicale. Se il farmaco è la molecola-chiave, Biki individua a priori quella più adatta ad aprire o chiudere la molecola-serratura. Evitando di provare tutte le possibili chiavi, si risparmia tempo e denaro. Inoltre, sviluppando una molecola che ha più affinità con la serratura, si riducono le probabilità che il farmaco fallisca nella fase di test sull’uomo».
Quanto tempo si risparmia?
«Mediamente un farmaco ci mette 10-15 anni per andare sul mercato, si possono ridurre a 7-8. Un’enorme vantaggio soprattutto per le malattie oncologiche e per quelle che hanno a che fare con il sistema nervoso centrale».
Lei è stato in California ed è tornato. Come riprenderci i cervelli in fuga?
«Il bonus del governo è utile ma il problema è soprattutto attrarre cervelli dall’estero. Centri di eccellenza ce ne sono, modelli da estendere al sistema Italia».
Le nostre università però perdono posti nelle classifiche internazionali…
«La qualità della ricerca e dell’insegnamento è alta ma bisogna battezzare dei settori e puntarci forte, non fare investimenti a pioggia. In America si fa così».
Una Sylicon Valley italiana è possibile?
«Io non farei brutte copie di quello che c’è negli Usa, cercherei una declinazione nostra. Il farmaceutico è un’eccellenza riconosciuta, ma anche l’agroalimentare o la moda. Investire sull’hi-tech di questi settori potrebbe essere la via italiana».
La prossima idea da sviluppare?
«Stiamo lavorando sulle dipendenze, la nicotina in particolare. il prossimo progetto lo costruiremo attorno a questo».