Sono uno di quelli che giocava a fare l’Armstrong. Con l’acciaccata radiolina Philips che era il collegamento con la Nasa. Con l’improbabile computer messo su con le costruzioni. E con la tuta acrilica da ginnastica (con le bande bianche ai calzoni) che era l’uniforme da astronauta. Serviva a fluttuare nell’atmosfera. A infilarsi nel Lem. A passeggiare sulla luna. Che poi era il salone, frontiera proibita della casa. Irraggiungibile. Vietatissimo. E che io violavo, dopo quel viaggio immaginario. Altro che il pianeta spaziale. Ma giocare a fare l’Armstrong, in fondo, era sognare. Proiettare quel volo immaginario nei pasticci assemblati col Lego Spazio e progredirlo, all’alba degli anni Ottanta, con la simulazione della missione Columbia, steso su un cassettone, dietro al letto, abitacolo nell’angusta galassia della mia camera. Uno spazio dei ricordi, che ancora oggi esiste.

Armstrong era un personaggio di quello spazio. Una specie di Ayrton Senna del cosmo, dell’astronautica, mito già decadente per noi, ragazzi di oltre metà anni Settanta, quando la Nasa tirò i remi in barca e negli Usa faceva più notizia una vittoria dei Lakers che una qualunque missione Apollo. Eppure Neil campeggiava col suo viso buono sui patinatoni di Epoca. Quegli speciali ne fotografavano il paradigma astronautico in modo inecceppibile e quasi mitologico così da farcene innamorare perdutamente. Neil e la conquista dello spazio, per noi, non erano storicisticamente il duello tra superpotenze. Erano un’esplorazione nuda e cruda. Che credevamo fosse come le ascese al K2 o le marce in Antartide, salvo poi scoprire che anche in quei lidi la bandiera che sventolava non era quella dell’avventura ma, in parte, politica. E così Armstrong era (ed è) un sogno. Un modo di viaggiare oltre le autostrade del conformismo. Un pensiero puro, per noi. Un pensiero ingenuo. Ma forse più bello. Come gli “Uomini Veri” di Philip Kaufman, eroi degli anni Ottanta americani. “Dio benedica l’America”, biascicano gli Yankee col sigaro infilzato tra le labbra. “Dio benedica Neil Armstrong e il sogno che ha rappresentato”, gridiamo noi, i fessi ragazzi degli anni Settanta. Perché Neil avrà infranto la barriera del sogno lunare, ma ha spalancato le porte della nostra fantasia infantile. E anche adulta. Buon viaggio, signore dello spazio.