E sicché mister Yeti è un orsacchiotto. Lo dice la scienza. Mistero risolto. Applausi. E se questo esserone peloso, un po’ animale un po’ bestione un po’ non so che, fosse semplicemente e solo uno Yeti? Non poserei troppe lenti sui suoi artigli, sul suo testone, sulla sua mole. Non è questione d’ottica. Di fisica. Di biologia. Di provette. E’ questione d’affetto. Possono raccontarmi quello che vogliono, ma lo Yeti è lo Yeti e basta. Un’ombra. Una presenza. Una paura. Una suggestione. Un qualcosa che respira e vive in noi. Nella nostra rappresentazione sensoriale e psicologica di montagna. In fondo, pensateci: che gusto ci sarebbe impelagarsi in un ghiacciaio o in un ghiaione remoto senza sapere che lo Yeti esiste? Se fosse un orso, perderebbe metà del suo sex appeal. E così lo Yeti è come l’idea di Heidi, di pastore che profuma di fieno, di mucca più linda del latte che produce.

E’ un essere che ci spaventa, ma ci tiene compagnia. Che coccola i nostri sogni, le nostre ansie e le nostre suggestioni. Nelle arrampicate tra guglie, camini e crode, ogni alpinista vede il suo Yeti. Non ci credete? Chiedetelo al primo che vi passa sotto gli occhi. Ne sentirete di ogni: c’è chi ne ha visto uno con la pelliccia, chi un altro senza, chi rivestito di cespugli e rami d’abete. L’abominevole uomo delle nevi è sempre lì, a incombere sui nostri cervelli ansiosi di credere in qualcosa. Quando ciondolo in parete, quando la neve mi ‘scrocchia’ sotto i piedi, la belva delle bufere e delle alte quote è lì a vegliare, a spiare i miei passi e quelli degli altri cento, mille, diecimila vagabondi della montagna. Che giurano su di loro di averlo visto. Il dramma è quando si atterra a valle: l’abominevole uomo sparisce e d’incanto compaiono altrettanto abominevoli uomini colorati, che ciarlano, discorrono, urlano, blaterano e traspirano stress. Lo Yeti è sparito. Il sogno, pure. Sotto una lente. La fantasia è stata congelata. Cristallizzata in un orso qualunque.