E’ come se l’impietoso obice del digitalismo avesse squarciato la trincea di carte ingiallite e color seppia della Grande Guerra. Cent’anni d’anniversario svelati non con la mira d’una baionetta, ma d’una lente trascinata dal mouse. Allora: succede che in casa, in una stanza quadrata ch’io chiamo il bar perché attaccata a un cucinino e allestita modello birreria misto inglese-bavarese, io tengo attaccata al muro, fissato con l’occhio pallato della cena notturna dopo estenuanti giornate di lavoro, una gigantografia del bisnonno Sante, regio ufficiale al fronte dell’ultima guerra d’indipendenza italiana, quella del ’15-’18.

Sante Frassanito, lutto nero al braccio, tazza di stagno in pugno, troneggia, militarescamente obbligato a un rassegnato sorriso, in mezzo a una surreale allegra combriccola di colleghi, che con lui brindano ai “giorni felici” in prima linea. Una di quelle fotocartoline propaganda messe a punto dall’oblativo marketing dell’esercito italiano, poi preso per i fondelli alle conferenze di pace che passarono sui cadaveri di migliaia di compatrioti mandati al macello. La prassi era banale e beffarda: i soldati, semplici e non, venivano messi in posa in fantomatici momenti lieti, quasi come in dipinti arcadici, per dimostrare che il fronte non era il fronte, ma solo un campo di gioco, dove il guerresco valore temprava il senso di patria, l’orgoglio e l’animo.

Così, come alla fine di una partita di calcio, i soldati venivano ritratti nello “spogliatoio”, con coppe di birra e rassicuranti pose di spensieratezza. Il bisnonno Sante, che poco aveva da ridere e brindare, era stato piazzato lì, immortalato con l’occhio forzato ad essere felice ma innegabilmente triste, rassegnato e perso nel vuoto del nonsenso di quel conflitto, obbligato a recitare con i suoi compagni, armati di mandolino, baffuti sorrisi e lindo spirito patrio. Quella fotocartolina era stata passata al setaccio della truce censura militare e poi spedita alla bisnonna Graziella, che a Monteroni di Lecce aveva dato l’addio al marito tra mille patemi e con l’allora piccoletto e paffuto nonno Carlo attaccato al gonnone, in stazione, col treno che sbuffava e partiva per gli “ameni” campi di battaglia dove gli italiani avrebbero dovuto conquistarsi onore e sbandierata ricchezza.

Succede che in un raro pranzo a casa, consumato col sole che filtra dalla finestra che guarda in faccia quel grottesco ritratto di spensieratezza militare, ingrandito a suon di mouse, tecnologia e pixel, il mio occhio mira quelli del bisnonno Sante. Che, quasi come se mi parlasse, amaramente rassegnato, mi indica un particolare all’estremità destra del quadro incorniciato modello arte povera. Il bisnonno, poco avvezzo alle tecnologie, stufo di posare forzatamente, s’è ribellato e mi ha svelato il trucco, in verità riportato a galla dai miracoli del computer: i pixel smisuratamente ingranditi mostrano una data, ai tempi cancellata sull’originale e impercettibile nel formato primitivo della fotocartolina perché troppo poco definito, che è il 1917. Accanto, il nome del bisnonno, quello dei commilitoni che devono recitare la parte e altre annotazioni troppo sfregiate per tornare alla luce.

In un lampo di sole e di suggerimento degli occhi scuri e grandi del bisnonno, risalgo al luogo, alla data e ai nomi dei suoi amici ufficiali che per anni e anni ho ignorato. Ringrazio il computer di quell’opera di archeologia della memoria. Ringrazio la tecnologia che per una volta ha squarciato il velo, a volte impenetrabile, della storia. C’è voluto un programma per ridare parola al bisnonno e ai suoi commilitoni, costretti al silenzio dai celebrati tempi dell’eroismo e arditismo. Da una piccola storia di ritratti, ne è nata una grande. Che è poi la memoria nascosta di quel dramma consumato un secolo fa, spesso dimenticato e riesumato solo per matematiche e convenienti celebrazioni che non riescono a ‘pixellare’ la tragedia di quelle assurde trincee di odio e pregiudizio.