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Myanmar, una pagoda ad ogni passo

Myanmar, il paese più mistico ed autentico d'Oriente dove si incontrano dappertutto  monaci di tutte le età. Non ci crederete, eppure ne ho visto uno anche su una giostra. E' uno dei piccoli, quelli che studiano per diventare monaco. E ci sono anche le ragazzine a questa scuola: sono distinguibili dai loro coetanei per il colore della tonaca. Infatti sono tutte vestite di rosa. Terra di mille pagode, di risaie e monasteri, dove la vita di tutti i giorni è scandita da rituali buddhisti, l'ex Birmania è  uno dei pochi paesi del continente asiatico a non aver subito, fino ad ora, una marcata occidentalizzazione.

Durante il mio viaggio in Myanmar, partendo dalla ex capitale Yangon e dal suo simbolo, la Pagoda Shwedagan Paya, mi sono spostata  verso nord alla volta delle località più conosciute ed allo stesso tempo speciali del paese: Bagan, uno dei luoghi più affascinanti al mondo coi suoi 2000 templi; Mandalay, centro spirituale del paese, e la vicina collina Sagaing, adornata da 600 pagode color avorio; il Lago Inle, spettacolare bacino d'acqua dolce, animato da canoe mai ferme, orti galleggianti, villaggi autentici piantati su palafitte. La surreale Golden Rock, un masso scintillante sulla cima del monte Kyaikhtiyo, è la suggestiva meta finale di  un viaggio veramente unico.

Migliaia di pagode, simili ma diversissime una dall'altra. La più fantasmagorica? Sicuramente la Shwedagon Paya al tramonto. La Swedagon è uno dei simboli del Myanmar, un'immensa stupa dorata alta 98 metri e circondata da una miriade di piccoli templi ai quali si accede da quattro monumentali passaggi coperti che raggiungono la cima della collina. Imperdibile all’ora del tramonto, per uno dei momenti più indimenticabili dell’intero viaggio; cala il sole e gli ultimi raggi che illuminano la pagoda fanno brillare l’imponente stupa: il cielo blu intenso contrasta fortemente con il colore dorato e appena diventa buio, l’illuminazione artificiale trasforma il posto in un luogo magico. A quest’ora intere famiglie vengono qui per trascorrere qualche momento di tranquillità e i birmani  non esitano ad avvicinarsi al turista per scambiare qualche parola, un modo divertente per entrare in contatto questa fantastica popolazione sempre sorridente. Non resta altro che passeggiare senza meta negli angoli più sconosciuti del tempio, tra piccoli zedi nascosti e reliquiari dove la gente si ferma a portare un’offerta e pregare.

Yangon è uno stop d’obbligo, ma piacevole, all’inizio e alla  fine del viaggio. Le attrazioni fatali? Oltre alla pagoda Shwedagon , il Bogyoke Market, volte vittoriane e 1800 botteghe, una caccia al tesoro fra scampoli di cotone, bottoni e posate di madreperla, lacche e borse etnochic (indirizzo sicuro al mercato, Sandar, 115 Main Road).  Nel giardino di Le Planteur, palazzetto coloniale in mattoni rossi con boutique del cioccolato, hanno cenato Mick Jagger, il leader politico svizzero e l’ex principe di Cambogia.

Il viaggio nel Myanmar continua nei luoghi citati nel romanzo di George Orwell (Giorni in Birmania, 1934). Soprattutto se si sceglie una deviazione a Kyaiktiyo per la Golden Rock, la Roccia d’Oro,luogo sacro del buddismo. È un masso di 25 metri ricoperto di foglie d’oro, in bilico miracoloso su una roccia grazie, secondo la leggenda, a un capello di Buddha portato in dono al re da un eremita (XI sec.). Il precario equilibrio tra le due rocce stupisce anche il più laico dei viaggiatori che non si può sottrarre all’incanto della sera, quando la Golden Rock brilla nel buio, e le candele accese dai pellegrini illuminano l’oscurità viola di queste montagne. Consigliabile nel tragitto, una tappa anche a Bago, 80 chilometri a nord di Yangon, capitale dei re Mon dal 1287 al 1539. Non c’è traccia della gloria passata in questa cittadina, ma vale una sosta per l’incredibile Shwethalyaung Buddha, lungo 55 metri e alto 16 (un mignolo misura 3 m).

Tiziano Terzani consacrò Bagan “come uno di quei luoghi che ti rende  fiero della razza umana”. Condivido l’entusiasmo dello scrittore quando l’aereo, atterrando, sorvola guglie e cupole delle 2200 pagode e stupa (zeidi) d’arenaria che spuntano in 40 chilometri quadrati di vegetazione. Per visitarla, il consiglio è di scegliere tempi davvero slow, intrufolarsi anche nei templi meno visitati. Da non perdere la saga delle Jataka Tales (vite del Bodhisattva), scolpite nelle 561 piastrelle della Mingalazedi Paya, o immortalate negli affreschi del Gubyaukgyi (del 1113). Si ammirano le pitture sopravvissute al saccheggio di un collezionista tedesco nel 1899, al Wetkyi-in Gubyaukgyi, o i disegni kashmir su residui di stoffa (XII sec.) nel tempietto numero 1845; o le nudità di  figure femminili che cercano di sedurre il Buddha in meditazione (Nandamanya Patho, XIII sec.). Trattative di mercanti portoghesi e scene di vita laica sbiadiscono sulle pareti dell’Ananda Ok Kyaung (XVIII sec.).

Ma la vita quotidiana, quella vera, irrompe nei corridoi  all’Ananda Patho, il tempio principale (XI sec.), con il viavai di pellegrini, i venditori di  fiori e foglie d’oro devozionali, i monaci  in preghiera. E poi si può noleggiare un calesse, girovagare fra le pagode, farsi portare al Natalaung Kyaung, unico tempio hindu di Bagan costruito per i mercanti indiani al servizio del re, raggiungere la collina che sovrasta i campi in cui spuntano le cupole delle stupa e aspettare qui il calar del sole. In silenzio.

Mandalay , poco più di 150 anni di vita è una città caotica, eppure crocevia di luoghi imperdibili. Si può visitare la candida Kuthodaw Paya che i buddisti considerano il più grande libro del mondo per le 729 lastre in marmo incise con le scritture sacre del Tripitaka. Un colpo di fortuna è andare nella Mahamuni Paya per le celebrazioni dei novizi, con i ragazzini vestiti a festa che sfoggiano turbanti e abiti color caramella. Il tempio è venerato per la statua del Buddha, ormai irriconoscibile perché deformata dai 15 centimetri di foglie d’oro applicate dai fedeli. A 11 chilometri a sud di Mandalay, le rovine di Amarapura, ultima capitale del regno, calamitano meno visitatori della passeggiata sul ponte U’bein, lungo 1,2 chilometri e costruito con più di mille tronchi di tek sul Lago Taungthaman.

Da Mandalay volo sul Lago Inle che (a 920 m) si incunea per 22 chilometri fra due catene montuose che raggiungono i 1500 metri. Un mondo d’acqua con un unico mezzo di trasporto, le lance a motore. In primavera i primi spruzzi di pioggia fanno fiorire ninfee e gigli d’acqua, e navigo in mezzo a  giardini galleggianti e  fitti canneti. Intorno, case di legno a palafitta (17 villaggi), pagode bianche che sembrano appoggiate sull’acqua, templi. E i famosi orti galleggianti dove cresce il 40 per cento dei pomodori birmani. Per visitare i villaggetti,  uso una canoa e da lontano mi perdo a guardare i pescatori che lanciano le reti, rimanendo in bilico su una gamba sola. Sembrano ballerini, ma  la loro è una lotta quotidiana per la sopravvivenza.

 

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