L’equitazione ha radici profonde: una prova? le Equicene!
Ci sono poche cose che mi piacciono più dei cavalli, e una di queste è parlare di cavalli.
Stasera mi hanno invitata a farlo con loro gli amici delle Equicene di Vicenza: si ritrovano da sette anni ogni terzo mercoledì del mese (agosto escluso) e ogni volta invitano un relatore a parlare di qualche argomento riguardi il vasto, meraviglioso e multiforme mondo equestre. E' stato molto bello, per me: vedersi davanti una settantina di persone disposte a lasciarsi sotterrare dalle mie chiacchiere fa bene al cuore, e mi sono potuta togliere dalla testa tanti pensierini che mi premeva condividere con qualcuno.
Nel caso gli amici vicentini non ne avessero avuto a sufficienza, le trascrivo qui di seguito: rimango a vostra disposizione anche con la rubrica di Cultura Equestre sul nostro sito, cari amici, per tutte le domande che vi fossero rimaste nelle tasche e non avessimo avuto l'agio di approfondire insieme.
Grazie per la bella serata, e spero che l'argomento interessi anche ai lettori di Cavallo Magazine.
L'Equitazione ha radici profonde
di Maria Cristina Magri
Il titolo che avete dato a questa Equicena è bellissimo. Rende l'idea di una cosa che arriva da lontano, con una storia fatta di tanti piccoli anelli che tenacemente si legano l'uno all'altro per arrivare fino a noi. Mi viene in mente una famiglia, le radici di un albero genealogico che nel buio di un terreno oscuro si allungano e prendono forza grazie a mille piccolissime diramazioni che riescono a fare arrivare elementi utili fino ai frutti. Che sono qui, al sole, appesi ai rami più vicini e li possiamo vedere anche noi e, volendolo, anche raccogliere.
Ci pensavo l'altro giorno, a Manerbio: ero appoggiata alla staccionata del campo prova, dove si preparavano gli iscritti ad una 130. Dritto e oxer se li dividevano una ventina di binomi, pigra pigra mi limitavo a guardare ad altezza occhi, limitando il campo visivo a poco più su di un garrese a poco più giù di una grassella. Una sfilata continua di quartieri, staffe di ogni colore, staffili, code svolazzanti e imboccature tra le più varie, froge sbuffanti e talloni. Tanti talloni, uno uguale all'altro nonostante la varietà di stivali consentita dal marketing calzaturiero: appoggiati lì, con poco peso addosso, quasi timidi a guardarli bene. Tra i tanti solo uno ha attirato la mia attenzione: decisamente affondato verso terra, con attaccato un piede elastico e messo come si deve da una parte e una gamba secca ma morbida, sensibile, che faceva da ammortizzatore al resto del cavaliere che se ne stava leggero sull'inforcatura quando occorreva e gli dava l'agio di cambiare anche solo di un millimetro l'equilibrio del tronco, in modo da mandare il cavallo come voleva lui e lasciargli le mani libere di dosare il contatto q.b.
Tallone, piede, gamba e tutto il resto erano quelli di Filippo Moyersoen.
Un cigno in mezzo alle papere o un diamante in mezzo alle patate, come preferite: ma l'effetto era quello e ho pensato che Moyersoen è solo uno degli ultimi anelli di una lunga catena arrivata fino a noi.
Esempio perfetto dell'Equitazione Naturale di caprilliana memoria, figlio ideale dello stile di Piero D'Inzeo generato attraverso la partecipazione dei suoi istruttori e/o ispiratori (tra i quali Raimondo D'Inzeo, Graziano Mancinelli e Vittorio Orlandi) che erano stati allevati secondo gli stessi principi dei due fratelli d'Italia – e che evidentemente non avevano tanto la necessità di vendergli cavalli, quanto il desiderio di metterlo in grado di montarne i più diversi nel modo migliore.
Piero e il fratello Raimondo erano figli (non solo geneticamente parlando) di Costante D'Inzeo, maresciallo di cavalleria e ottimo istruttore che si era formato negli anni d'oro dell'equitazione italiana, quella in cui chi metteva in sella tutti i militari (e di conseguenza la maggior parte dei dilettanti civili, loro satelliti) era stato cresciuto (come Tommaso Lequio) dagli allievi diretti di Federigo Caprilli o dei suoi più vicini collaboratori – come i generali Amalfi e Ubertalli, solo per dirne due.
Caprilli non era solo un genio determinatissimo (smuovere i regolamenti farraginosi di un Regio Esercito non era mica una cosa da poco) ma sopra ogni cosa un istruttore coi controfiocchi, un Docente con la D maiuscola. Che aveva messo tanto di nuovo e di suo nell'equitazione ideando poi il suo Sistema Naturale ma era stato a sua volta cresciuto da gente come Cesare Paderni (cresciuto alla Spanische Schule di Vienna) e il marchese Luciano di Roccagiovine, grandi cavalieri di campagna. Roccagiovine (figlio di una Bonaparte e strettamente legato all'alta società francese) era nato nel 1853, nel 1864 Alexis L'Hotte era ecuyér en chef a Saumur: lui era riuscito ad essere allievo sia di Baucher che del conte D'Aure, a capo di due scuole opposte per finalità ma uniti da un talento fuori del comune. Quest'ultimo era pupillo e successore del visconte Pierre Marie d'Abzac, quasi coetaneo del bresciano Federigo Mazzucchelli: erano nati poco dopo il 1740, attraverseranno tutto il secolo più rivoluzionario degli ultimi 2000 anni con stile incomparabile, che una parrucca incipriata nulla toglieva alla finezza dei loro aiuti.
Riusciamo ancora a salir per li rami di questa storia, potremmo continuare per secoli: il primo '700 vede un fiorire di Scuole Equestri in ogni dove (tranne forse l'Italia e la Spagna, in quel momento troppo povere e politicamente deboli per avere una corte capace di ospitarne una), come la Scuola Spagnola di Vienna e quella di Hannover. La prima delle due era una diretta discendente dei principi di François Robichon de La Guérnière (1687-1751), l'Illuminista dell'Equitazione che usò il prorpio criterio e la propria sensibilità per riorganizzare, riassumere ed attualizzare gli insegnamenti dei grandi Maestri vissuti poco prima di lui: il favoloso Duca di Newcastle (1592-1676) e attraverso questo anche Pluvinel, non particolarmente amato da La Guérinière ma che ci porta dritti dritti dal nostro Giovan Battista Pignatelli e dalla grande scuola italiana del Rinascimento: con Cesare Fiaschi (1523-1592), ferrarese, ingiustamente dimenticato per secoli e così infinitamente superiore al suo quasi contemporaneo napoletano Federico Grisone. I loro due libri furono i primi trattati di equitazione ad essere pubblicati in francese, giusto per farvi capire l'importanza che ebbero per la nascita della cultura equestre d'oltralpe. Da loro ancora saliamo su per la scuola bizantina in esilio a Napoli ( e dalle reminiscenze greche), e poi per il grande mondo di Spagna venato di influenze nord-africane.
Un lungo viaggio come vedete, che potremmo continuare con un po' di tempo e pazienza. Ma che possiamo fare grazie ad un unico, bellissimo e generoso unico comun denominatore, che è il cavallo.
E' lui, il cavallo, la costante periodica all'infinito che ci accompagna da sempre e ovunque. E' su di lui che dobbiamo calibrare da sempre lavoro e richieste, è dentro i limiti delle sue possibilità che abbiamo lo spazio di chiedergli cose nuove: ed è lui che ci porta ciclicamente a riscoprire cose che ci sembrano nuove, ma sono sempre riedizioni di qualcosa che è per forza determinato dal suo modo di essere – e pensando a questo mi viene sempre in mente l'affresco di Piero della Francesca ad Arezzo, nel Ciclo della Vera Croce, dove si vede un cavaliere che per superare un fossato fa una bellissima ceduta in quello che diremmo un perfetto stile caprilliano: solo che siamo nel 1452.
In questo viaggio insieme il cavallo è riuscito sempre ad adattarsi, a cambiare per seguire necessità e desideri di noi umani: è diventato più grande o più piccolo, più pesante o più leggero a seconda di come lo abbiamo selezionato e allevato. La nostra equitazione è cambiata seguendo il suo grado di sangue, la storia stessa è stata modellata anche dalla nostra capacità di profittare al meglio dei suoi talenti: anche questa serata è un'occasione per ricordarlo, e mettere la sua corretta gestione al centro delle nostre attenzioni.