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Firenze, 25 maggio 2012 – Pascoli: una pietra miliare della nostra storia letteraria e, insieme, un caposaldo della modernità. Torniamo ad affermarlo con convinzione mentre le celebrazioni del centenario, da poco iniziate, proseguono.

Pasolini diceva che tutto il nostro Novecento migliore derivava da lui: da quello moralistico dei «vociani» a quello di cui la sua stessa poesia, a partire dagli anni Quaranta, era stata rappresentante.

Certo è che al capitolo della lirica pascoliana dovrà essere ascritta una partecipazione di rilievo alle vicende del simbolismo. Un simbolismo particolare, quello di Giovanni Pascoli, tutto interiormente in ascolto e in larga misura inconsapevole, laddove quello del suo coevo compagno di strada Gabriele D’Annunzio si muoveva, tra estroversione ed esibizione, negli spazi dell’aggiornamento su scala europea e della creazione intellettualmente nutrita di miti all’insegna dell’eroismo e del primato.

Partecipazioni divaricate, ma culturalmente efficienti e interattive, anche sul piano di una condivisa, ingente lezione linguistica svolta.Sta di fatto che in Pascoli i traumi di tipo familiare e sociale subiti e biograficamente certificabili inaugurano una sorta di grande ricongiungimento al reale e ai problematici destini dell’uomo che in quel reale si trova ad esistere. La poesia si fa modernamente mistero: mistero della vita captato ed inscenato dalle zone di provenienza più remote ed impervie dell’inconscio, dove il «fanciullino» prende forma e con il bagaglio delle sue qualità si afferma.

Con Pascoli il poeta cessa di essere il pedagogo, il tribuno e il predicatore a sfondo sociale, per essere al contrario – davvero simbolisticamente, tra i confini della sua solitudine e oltre ogni deliberato programma aggiunto – figura di colui che cerca la verità di se stesso nell’universo. L’antieroica, minuta e quotidiana professione di debolezza di Pascoli e il senso di instabilità che dalla sua poesia esatta e vertiginosa promana si fanno apertura al moderno.

Un testo notissimo ma tutto da rileggere, riascoltare e riassaporare come La cavalla storna (dai Canti di Castelvecchio) ci immette esemplarmente in questi territori «regressivi»: territori soggetti a mutilazioni, in apparenza dimissionari, umili ma oltremodo impegnativi.Pascoli si affida alla propria memoria costellata di sventure e cose rimaste inesplicate, ma nel far questo redige un’attendibile, veridica storia del mondo. Una storia che continua, intimamente palpitante.

Marco Marchi

La cavalla storna

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi ancora,
e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:

 

«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dài retta alla sua piccola mano.

Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,
tu dài retta alla sua voce fanciulla».

 

La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:

 

«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.

O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…»

 

La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.

 

«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole».

 

Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera.

 

«O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!

A me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come».

Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome… Sonò alto un nitrito.

Giovanni Pascoli