VEDI IL VIDEO Il “Recitativo veneziano” di Zanzotto nella scena del Carnevale sul Canal Grande a inizio del “Casanova”

Andrea Zanzotto

Firenze, 23 aprile 2013 – Non mancano elementi, oggi, per ricostruire in dettaglio, nella loro durata e nella loro complessità, le relazioni intercorse tra Zanzotto e Fellini: penso in particolare all’importante, recente saggio di Luciano De Giusti Andrea Zanzotto. Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari, edito da Marsilio. Cercheremo qui di cogliere, suddividendo il nostro discorso in due ampi post, il rapporto tra Andrea Zanzotto e Federico Fellini in quello che resta il momento inaugurale e insieme culminante, artisticamente più riuscito e più alto, di documentabili, protratte frequentazioni: da La città delle donne a E la nave va, a quell’incombente, mitico progetto felliniano, perennemente pressante e perennemente rinviato, del Mastorna. Ci occuperemo del complessivo contributo in dialetto con cui il poeta di Pieve di Soligo corrispose a suo tempo alle richieste collaborative del regista di Rimini, facendo della sua partecipazione al Casanova – passata attraverso il Recitativo veneziano e la Cantilena londinese, testi poi confluiti in un’edizione a stampa ampliata dal titolo Filò – una irripetibile occasione di incontro tra letteratura e cinema, destinata a rimanere unica nel panorama della cultura del Novecento.

Vittima dei suoi nevrotici stratagemmi, spericolatamente eppur lucidamente al centro di un pirotecnico experiri psico-linguistico in cerca di verità, la poesia di Zanzotto esige molto dal lettore che vi si accosti. Benché libero, geniale e tracciato da una mano sempre più smaliziata, l’arabesco zanzottiano produrrà l’effetto di avere sfondato in più punti la pagina su cui ha trovato definitivo assetto; tratto sicuro di sé e cancellature irreparabili faranno un tutt’uno, rivendicandosi tecnica volta con totale consapevolezza a circostanziare lo stupore che d’acchito si è generato a contatto con il messaggio, fra calamitante attrazione segnica, sua perentoria necessità e richiesta instante rivolta alla chiarificazione delle sue ragioni costitutive più profonde.

Puntiamo a quel magnifico libretto intitolato Filò, edito ora da Einaudi. La rilettura di questi mirabili versi dialettali veneti che ci riportano alla metà degli anni Settanta (al 1976 per la precisione, per le veneziane Edizioni del Ruzante) ci pone nuovamente, capillarmente di fronte a varianti, sottovarianti e corollari di un’unica disposizione. Il fascino dell’obscurisme contro cui aveva avuto a che ridire l’intollerante signorina Morchet di Misteri della pedagogia? Le incognite che per proprio conto il dialetto veicola ancor più ovattate al lettore, nonostante il meritorio lavoro di traduzione in lingua («trascrizione in italiano»), a suo tempo operato da Tiziano Rizzo? O la complicazione positivamente intervenuta della fantasmagoria felliniana, corredo immaginativo esibito dal frontespizio dell’opera nei termini di cinque disegni, visceralmente attivo fin dai preliminari propiziatori dei testi?

La storia esterna del libro, questa sì, è nota: un invito di Federico Fellini all’amico e ottimo poeta Andrea Zanzotto, ritenuto in grado di poter venire incontro meglio di altri (solo fra tutti) a desiderata da chiarire anch’essi in comune (la datazione della lettera riporta al luglio ’76); e a ruota, illustrati da disegni del regista, i frutti poetici inviati in risposta ad istoriare la già fiorita colonna sonora del Casanova. Ma c’è di più. Nel frattempo, auspice ancora la lettera che apre libro e «caso», assieme al Recitativo veneziano e alla Cantilena londinese ha preso corpo il Filò vero e proprio (luglio-ottobre 1976), come se nel poeta fossero state traumaticamente rimosse, grazie a questa intrapresa collaborazione, le residue resistenze che avevano fino ad allora trattenuto la sua sperimentazione da un così completo e compatto tuffo nel dialetto. Interessante, a questo proposito, la testimonianza a caldo fornita dall’autore circa i problemi che l’elaborazione complessiva del trittico gli aveva sollevato, costringendolo, oltre gli obblighi della creatività stricto sensu, anche alle terminali prese di posizione teoriche: i significati e i ruoli del dialetto nella coeva situazione linguistica italiana (di lingua parlata e di lingua scritta), la liceità o meno dei suoi differenziati impieghi a scopi artistici, le personali assenze e presenze sul campo, e così via.

Sta di fatto che, a dispetto di tanta critica zanzottiana accumulata e sempre più spregiudicatamente dotata di moderne strumentazioni, è stato un vecchio lettore di poesia spesso non molto al di sotto del grado di autorevolezza riconosciutogli come poeta, Eugenio Montale, a cogliere nel segno sulla poesia di Zanzotto, o perlomeno su di un aspetto ineludibile di essa che merita di essere riconsiderato. L’intervento è breve, a carattere recensorio (l’occasionava, nel 1968, l’uscita della Beltà),e il passaggio che più ci preme di citare recita: «Zanzotto non descrive, circonscrive, avvolge, prende, poi lascia».

È così, in effetti, che Zanzotto si muove tra i materiali che affollano il suo congestionato laboratorio di poeta novecentesco fatto di sostanze semantiche e presemantiche, combinazioni grammaticali e pregrammaticali, soluzioni linguistiche e prelinguistiche, che altri – da Agosti a Bandini, da Milone a Belmonte, da Prete a Dal Bianco, solo per fare nomi affidabili – si è dato cura di inventariare e interrogare. Zanzotto è alla ricerca della pietra filosofale che gli consenta di riprodurre in versi la fabula straniante individualissima che chi scrive sta vivendo e, caso mai, di complicarla, aderendovi nel migliore dei modi: integralmente. Da questo punto di vista le considerazioni montaliane che seguono precisano bene l’operazione in atto: «Non è proprio che cerchi se stesso e nemmeno che tenti di sfuggire alla sua realtà; è piuttosto che la sua mobilità è insieme fisica e metafisica, e che l’inserimento del poeta nel mondo resta problematico e non è nemmeno desiderato».

Di qui «una poesia inventariale che suggestiona potentemente e agisce come una droga sull’intelletto giudicante del lettore». E tuttavia nel leggere Zanzotto viene un momento, io credo, in cui l’effetto dello stupefacente poetico, che è disposto e dispone a tutte le possibili arditezze acrobatiche, cessa, si annulla, e la mente, sgombra di lusinghe ammiccanti e sbalorditi stralunamenti, riacquista di botto piene facoltà coscienziali, per di più accresciute, potenziate dall’esperienza della quale è stato al centro e con cui ora s’illude, a prescindere dall’ontologica compresenza dei due livelli di trattamento, di avere chiuso i suoi conti. In altri termini, quando la poesia di Zanzotto «lascia», per riprendere il verbo impiegato da Montale, è giocoforza il subentro del giudizio, dell’istanza alla chiarificazione critica di ciò che l’allucinazione o visione limitrofa pretendeva di poter omettere.

Ed eccoci, tra emozione e riflessione, a Filò, a qualche nota sul Filò, sinteticamente compulsati nella sua articolata completezza . Se il Recitativo veneziano conquista anima e corpo con la sua permanente baraonda allocutiva di lusinghe e improperi a getto continuo, ciò non impedisce di ricostruire a posteriori la consequenzialità secondo cui si snoda, nel connubio tra immagini e parole, il farneticante cerimoniale litanico-carnascialesco della liturgia felliniano-zanzottiana. Si viene ad appurare innanzitutto che il crescendo non è solo di natura evocativa o meramente musicale.

«Vera figura, vera natura / slansada in ragi come ’n’aurora, / che tuti quanti te ne inamora: / to fià xé ’1 vento, siroco e bora / che svegia sgrìsoli de vita eterna, / signora d’oro che ne governa» («Vera figura, vera natura / slanciata in raggi come un’aurora, / che tutti quanto ci innamori: / tuo respiro è il vento, scirocco e bora / che desta brividi di vita eterna, / signora d’oro che ci governa»). Così, con accenti di sontuosa magnificenza e suadente dolcezza, attacca la partitura per Venezia, sotto il segno di un’ammissibile dedicatoria paleoveneta che fa da epigrafe all’atemporalità del tutto. Nel cólto parlar latino del Doge, l’invocazione si arricchisce di epiteti che dal Cantico dei cantici (donde il dettato espressamente attinge), attraverso la commozione di un re Lear shakespeariano, si ricollegano a combacianti esternazioni d’affetto da libretti d’opera. Non sono Rigoletto e Timur, il disgraziato padre pucciniano di Liù in Turandot, insieme, ad esprimersi in termini di colomba? La colomba, però, subito qui si despiritualizza in amica, sponsa e in attributi fisici, da anatomia erotica, ancor più eloquenti quali labia ed ubera dulciora vino: presentazione degna, anche in rapporto alla reinvenzione figurativa operatane da Fellini, della Magna Mater polisemica fino allo spasimo e insignificante, crogiuolo di confusione, summa asessuata o ipersessuata di tutto ciò che è caos primordiale, fecondità, creazione e contraddizione.

I legami placentari che la trattengono da una completa, benevola e benedicente epifania sono stati da poco tagliati e la lista delle designazioni riprende il suo corso. A sostenere il conato, sopraggiungono il riferimento antinomico calcato («testa de fogo che il glasso inpissa» – «testa di fuoco che accende il ghiaccio») e l’ambiguità semantica di un sonai (sonagli) anatomicamente traslabile. La progressione delle rapide lasse si accavalla, labia ed ubera si atrofizzano e, sulla scia di un’immagine di Vocativo («Eri bambina, giacevi nella culla»), l’opulenta Venezia ritorna «Putina perla, putina unica / che zó ti fifi ne la to cuna» («Bambina perla, bambina unica / che piagnucoli giù nella culla»), una creaturina cui ci si diverte a fare le moine.

Il camaleontico metamorfismo della divinità si fa poi ideologicamente implicato, fissandosi in contrasti di oro e stracci, di padronato insensibile e braccia che aspettano «fruti partuto, par tera e par mar» («frutti dappertutto, per terra e per mare»), tanto che la degenerazione del rito messo in scena ci appare ormai imminente. Ed è, in effetti, quanto avviene. Alla richiesta di soccorso per la sorte dei suoi servi, per eccessi di volontarismo propiziatorio, insofferenze o semplici meccanismi della psicologia di massa, la supplicata Regina si vede ridotta ad inbriagona, magnona, mona ciavona, cula cagona, baba catàba, vecia spussona (ubriacona, mangiona, mona chiavona, cula cagona, vecchia cataba, vecchia puzzolente), con ribadito ossequio per la sfera della fisicità nell’accatastare adesso, litanicamente, le caratterizzazioni rabbiosamente caricaturali che l’estro collettivo nell’eccitato clima del carnevale produce.

La preghiera diventa imprecazione ed invettiva, la confidenza scade in blasfemia iussiva e maledicente. Alla fine è il disastro. Una didascalia informa di ciò che sta accadendo, ed è, oltre il crollo del simulacro, il disperdersi di redivivi fratres Arvales alla marina, la smobilitazione atterrita e a tratti ancora impenitente di chi si era arrischiato a sconvenienti familiarità con la sacra creatura. Il tentativo di avvicinarla ai propri voleri, partito bene, è miseramente fallito, un po’ come avviene nella tragedia greca o, altrimenti sublimato, in certe scene violente della moderna cinematografia di consumo. L’esasperato rito cittadino rinuncia alle nozze soggioganti e la scena si conclude con una silenziosa, suggestiva dissolvenza sulla testa nuovamente inabissata. (continua)

Marco Marchi

Recitativo veneziano

Vera figura, vera natura,
slansada in ragi come’n’aurora
che tuti quanti te ne inamora:
aàh Venessia aàh Regina aàh Venusia

to fia xé ’l vento, siroco e bora
che svegia sgrisoli de vita eterna,
signora d’oro che ne governa
aàh Venessia aàh Venegia aàh Venusia

Testa santissima, piera e diamante,
boca che parla, rece che sente,
mente che pensa divinamente
aàh Venessia aàh Regina aàh Venusia

par sposa e mare, mora e comare,
sorela e nora, fiola e madona,
ónzete, smólete, sbrindola in su
nu par ti, ti par nu
aàh Venessia aàh Venòca aàh Venessia

Metéghe i feri, metéghe i pai,
butéghe in gola ‘l vin a bocai,
incononàla de bon e de megio;
la xé imbriagona, la xé magnona,
ma chissà dopo ma chissà dopo
cossa che la dona!

Mona ciavona, cula cagona,
baba catàba, vecia spussona,
Toco de banda, toco de gnoca,
Squinsia e barona, niora e comare,
sorela e nona, fiola e madona,
nu te ordinemo, in sùor e in laòr,
che su ti sboci a chi te sa tòr.

Andrea Zanzotto 

(da Filò, 1976, Edizioni del Ruzante, ora Einaudi)

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