VEDI I VIDEO “Le lettere d’amore” , Roberto Vecchioni parla di “Scacco a Dio” 

RARITA’ “Porta Romana” cantata da Vecchioni, Guccini e Dalla (1977)

Firenze, 8 giugno 2013 – Articolo pubblicato su “La Nazione” del 9 maggio 2013.

Professore e poeta: a Roberto Vecchioni il ‘Castelfiorentino’

È proprio lui, l’autore della celebre “Samarcanda” e di tante altre canzoni che tutti abbiamo cantato, ma anche il poeta di “Volevo. Ed erano voli” e il narratore di “Scacco a Dio”, il vincitore del premio speciale del Premio Letterario Castelfiorentino 2013.

Un’edizione straordinaria, quella dei quindici anni. Dopo avere stilato un albo d’oro di assoluto prestigio che annovera tra i suoi nomi illustri quelli di Mario Luzi, Tonino Guerra e Claudio Magris, di Dacia Maraini, Alberto Arbasino, Andrea Camilleri e Patrizia Valduga, il “Castelfiorentino” premia adesso – raggiungendo anche un pubblico giovane, che di ritrovati valori umani veicolati dalla poesia e dall’arte ha assolutamente bisogno – la creatività in forma di scrittura di un personaggio carismatico e di grande talento come Roberto Vecchioni, “il professore”.

Nato a Milano nel 1943, laureatosi nel 1968 alla Cattolica, insegnante di latino e greco nei licei, Vecchioni presto si afferma come cantautore tra i più colti ed apprezzati, imponendosi come uno dei padri della canzone d’autore in Italia. Diventa poi il poeta di “Di sogni e d’amore” e lo scrittore di successo di “Viaggi del tempo immobile”, “Le parole non portano le cicogne” e “Il libraio di Selinunte”.

Ma per Roberto Vecchioni il premio che gli sarà consegnato a Castelfiorentino l’8 giugno prossimo non sarà certo il primo. Tra i molti già meritati spiccano il “Carlo Betocchi” per la poesia, lo “Scanno” per la narrativa e il “Giorgio La Pira” per la pace.

Marco Marchi 

Da “Di sogni e d’amore”

Autoritratto

Quando un uomo si crede fuori del tempo
perché ha perduto l’orologio
è un poeta;

quando al parroco
chiede
che il campanile non batta
i quarti d’ora
contro i diritti delle undici e venti
è un poeta;

quando si stropiccia nelle pieghe del cielo
recapita alla sua anima
in pacchi dono
per un sorriso di vetro
ad ogni ricevuta

quando grida dove il silenzio è più forte
quando inventa quello che gli altri hanno scoperto
quando ama quando il silenzio è più forte

quando
muore
dove il silenzio è più forte

quando un uomo
con dieci fiori vincenti
in mano
dichiara tre picche
giuro
è un poeta.

L’inizio di “Scacco a Dio”

La prima volta si presentò vestito da pittore rinascimentale.
– Chiudi la porta e vieni dentro, – disse.
– Ma qui non c’è porta, – rispose Teliqalipukt.
– E tu fai finta che ci sia e chiudila.
Sistemò tavolozza, tele, colori, cornici e sgabello in bell’ordine e tirò un sospiro divino.
– E perché non pompiere, usuraio, guardia svizzera o, che so io, giocatore delle tre carte? – ironizzò Teliqalipukt.
– Taci, Teliq, è una cosa grossa, è una cosa grave: tu non puoi immaginare nemmeno lontanamente perché sono qui.
– Illuminatemi con la vostra sapienza.
– Sto male.
Teliqalipukt lo guardò. Doveva ridere o prenderlo sul serio? E come prendere sul serio uno che ti si presenta in velluto cachi e cappello a sbuffo, e comincia a far schizzi a carboncino mentre annuncia una catastrofe? E poi come doveva chiamarlo? Dio? Signore? Voi? Ella? «Capirà se gli dico: si accomodi, si sfoghi, il bagno è di là?»
Con Dio aveva sempre avuto contatti di natura eterea: si trasmettevano attimi d’estasi senza mai vedersi, così come si deve tra puri spiriti. Ma ora le cose cambiavano: cosa ci faceva Lui lì, nel tempo, camuffato da Bernardino Luini? O era il Mantegna?
Teliqalipukt era un immortale: Dio l’aveva scelto ab origine per vigilare sul mondo, per entrare di soppiatto nella vita degli uomini e guardare, osservare, capire, senza interferire col loro destino, coi loro propositi; e lui, di uomini, ne aveva conosciuti e seguiti a centinaia, a migliaia, nei secoli, fino a scoprire come cambiavano, cosa volevano, sapevano, speravano, fino a misurarne le miserie e i colpi d’ala, sempre presente quando sbagliavano, quando cadevano, attento al loro stupore infantile davanti alle scoperte, ai loro versi millimetricamente imperfetti nel dire gli orli della solitudine e l’esperienza della luce.
Era uscito dalla misura degli angeli; aveva assistito alla nascita della geometria, letto il primo libro, sentito sbuffare la prima locomotiva, visto Edison accendere una città intera, i fratelli Wright alzarsi increduli sulle loro ali di legno e poi… e poi…
Ancora quella stretta al cuore che non lo lasciava in pace: i suoi ragazzi, i suoi piccoli immortali! Da quanto non li vedeva? Da quanto non erano più con lui?
– Voi non potete stare male, Signore: dev’essere qualcos’altro, che so, un ritorno di pensiero, una stasi d’immortalità; ma che dico, è impossibile! Cosa… cosa vi sentite?
– Un infinito vuoto, una specie di nausea astrale, un sottosopra, una gran voglia di rompere tutto e ricominciare da capo.
– Piano, piano! Andiamo con ordine. Innanzitutto cosa ci fate qui, vestito in modo così ridicolo?
– Ridicolo? Io adoro il Rinascimento. Be’… diciamo che è una necessità, Teliq: non potevo certo sciorinarti quel che ho sul gozzo e ascoltare le tue prediche come puro spirito. Non esistono consigli e contraddittorio tra spiriti. Ci vedi, noi due, a chiacchierare per sospiri e lampi di luce? No, dovevo in qualche modo entrare nel tempo: nel tempo si possono usare i pensieri e le parole, come fanno gli uomini. Così, già che c’ero, mi son tolto lo sfizio di interpretare i ruoli che mi piacciono di più. Però, c’è un però, anche così non riesco a star fermo, non mi lascia questa fregola di creare –. E lo si vedeva bene: in dieci minuti aveva già dipinto venti nature morte e una pila di ritratti: particolarmente riuscito un Giuliano de’ Medici pugnalato in Santa Maria del Fiore con i Pazzi che fan finta di niente.
– E questo è chiaro, – riprese Teliqalipukt. – Ma cosa c’entro io in tutto ciò?
– Gli uomini, Teliq: nessuno conosce gli uomini meglio di te.
– Voi, Signore!
– Credevo, ma devo averli persi un po’ di vista negli ultimi tempi.
– Diciamo pure dall’inizio.
– Adesso mi sembri esagerato: io ho indicato loro in tutti i modi la strada da seguire, e non avevo dubbi sulla riuscita: sono o no a mia immagine e somiglianza?
– Qui sta l’inghippo. A immagine forse, benché sian molto più belli di voi; a somiglianza, lasciatemelo dire, neanche un po’. Quanto alla strada, mi pare che abbiate fatto un po’ di confusione.
– Ma se ho perfino mandato mio figlio!
– E perché l’avete mandato?
– Oh bella, perché sapessero che non li avrei mai abbandonati!
– Sbagliato!
– Sbagliato cosa?
– È stata una correzione, Signore. E una correzione significa che avevate commesso un errore e volevate porvi rimedio. Ma voi non potete correggervi!
– Io ho solo voluto chiarire, insomma spiegare meglio quello che non riuscivano a capire.
– Il Vangelo è stato un atto di debolezza, una zappa sui piedi: voi dovevate dire ogni cosa nell’Antico Testamento. E che? Non c’era più spazio nelle tavole di Mosè? Lo si trovava: vi sembra un comandamento «Non desiderare la roba d’altri»? E che desidero? La mia? Sapete cos’è successo? Ve lo dico io: «Scusatemi, scusatemi, avete presente quella storia che se mi ciechi un occhio io cieco il tuo? Si scherzava, non è vero, anzi, bisogna farsi ciecare pure l’altro»! Vi sembra credibile?
– Be’, però il Vangelo ne ha avuto di successo!
– Una grande operazione di marketing, Signore: un bel mix di immagini strappalacrime e promesse elettorali. Un vero trappolone: «È vostro il regno dei cieli». Vedete del cielo, voi, qui intorno? Il cielo è tutta quella roba inutile laggiù in fondo che avete riempito di stelle: non sapete più che farvene! E vogliamo parlare di Maometto?
– No, no, lì ho sbagliato a non troncare subito, ma ne ho sottovalutato la portata. Io avevo in mente qualcosa di universale, per tutti, ma gli uomini si dividono in popoli e un popolo lo fai su facile se gli dici che da lassù si briga solo per lui. I popoli non guardano oltre il proprio cortile e sanno essere cattivi come i bambini sulla spiaggia: «Questo secchiello è mio, la paletta pure». E allora ecco premi eterni concessi solo alla loro tribù, conventicola, ecco il divino a proprio uso e consumo, il Paradiso esclusivo vista mare.
– Se lo dite voi.
– Sì. Ma piantiamola con la teologia, Teliq, ché tanto non ci siamo tagliati. Il mio problema non è questo: il mio assillo è che mi sembra di perderli.
– Gli uomini?
– Oh, non tutti, ma forse proprio quelli a cui tengo di più. Sembra quasi che lo facciano per farmi dispetto: arrivati a un certo punto è come se spegnessero la stella che li guida, come se s’incidessero un’altra linea della vita sulla mano. No, non parlo di peccati, quelli son minuzie: dico il loro cammino, il corso del loro destino. Hanno un solco da seguire, un viaggio da compiere e improvvisamente lo cancellano, lo resettano, vogliono essere altri da sé; stropicciano le loro anime fino a rendersele irriconoscibili, si ribellano alla felicità. È come se in un’immaginaria scacchiera non accettassero più le diagonali di un alfiere, i salti di un cavallo, le rette di una torre, cioè le regole che conducono a quell’unica suprema bellezza che è il fine, e la fine.
Non vogliono, non vogliono più: i cavalli escono dalla scacchiera, le torri volano in alto, i pedoni ripercorrono i propri passi, e in questo delirio, in questo gioco stravolto, ingannando lo spazio e barando con il tempo, spacciano ’sta falsa libertà per uno scacco a me, uno scacco a Dio. Ecco cosa mi tormenta e cosa voglio capire: dove ho sbagliato? Come ho fatto a perderli?
In un lampo affrescò quattordici scene della vita di sant’Eustorgio su un immaginario soffitto.
– Merita tanto?
– Chi? Sant’Eustorgio? No di certo, ma mi viene particolarmente bene –. Posò il pennello. – Tu, Teliq, sei stato sempre tra gli uomini e li conosci veramente. Devi raccontarmeli come sai, devi parlarmi di questo demone che li divora e spiegarmelo, per farmi uscire da ’sta crisi, e in fretta, perché se mi va in pappa la mente, qui sbaracchiamo tutti.

Roberto Vecchioni 

Leggi il post correlato (con video di Vecchioni che canta ‘A.R.’) Pollicino sognante. ‘La mia bohème’ di Arthur Rimbaud

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