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Firenze, 21 maggio 2013 – E’ appena uscito per i tipi di Rizzoli il romanzo di Sandro Campani La terra nera, appassionante storia di tre fratelli e di una donna ambientata in quello che è il territorio di provenienza dell’autore (diremo fra poco quale), con la sua geografia, la sua particolarissima sociologia e naturalmente la sua lingua. Un romanzo che assolutamente consigliamo a chi quotidianamente ci segue in queste Notizie di poesia.

“La mia narrativa – ha del resto dichiarato in un’intervista Campani – è il tentativo di ricreare un mondo che abbia la sua forza nel luogo oltre che nel personaggio”. Originario di Roteglia, una frazione del comune di Castellarano, in  provincia di Reggio Emilia, tra colline reggiane ai confini del modenese e Appennino, dopo alcuni importanti riconoscimenti tributati ai suoi vividi, eccellenti racconti di Nel paese del Magnano (Italic, 2010), il giovane scrittore è giunto adesso, meritatamente, alla pubblicazione di un suo romanzo, La terra nera, presso un grande editore: un motivo per noi, che in lui abbiamo creduto premiandolo al Premio Arturo Loria e al Premio Letterario Castelfiorentino, di sincero compiacimento, oltre che una sostanziale verifica della validità di scelte operate.

Vivido ed cccellente come i racconti di Nel paese del Magnano anche il  racconto inedito con il quale Sandro Campani si impose nel 2012 al “Castelfiorentino”: un testo su tema toscano, come espressamente richiesto dal bando del premio, dal titolo La gamba della Chiara. In accordo con una poetica personale già matura e riconoscibile, La gamba della Chiara narra di un viaggio di lavoro attraverso l’Appennino tosco-emiliano: un viaggio che ben presto si trasforma in un libero spazio narrativo tra monti e valli, situazioni e stati d’animo in cerca di rivelazioni. Uno sguardo puntato sui cangianti paesaggi della natura e dell’interiorità che registra con vigile sollecitudine l’evidenza del reale e che ne mostra, ponendosi dalla parte del dimenticato e del degradato, la smagliatura e l’imperfezione, lo scollamento e la caduta.

La scrittura di Campani  risponde per suo conto responsabilmente, con una parsimonia di mezzi che riesce per converso forza espressiva, alla richiesta di significato che è nelle cose, in un’incondizionata, parificata adesione all’esistenza di alberi e rocce, bestie e persone: un’adesione che fa pensare, oltre che all’afflato naturale di scrittori sicuramente presenti alla cultura di Campani come Pavese e Fenoglio, all’arte  preclara di Federigo Tozzi.

Marco Marchi

La gamba della Chiara

Vado a Massa e a Pietrasanta per il marmo, da vent’anni, a prendere pezzi da fotografare: sono grafico ceramico a Sassuolo, e gran parte dei disegni per piastrella derivano dai marmi e dalle pietre.
Tanti marmisti un tempo ti scacciavano a bestemmie, come se rubassi il lavoro, ma certi hanno capito che chi sceglie le piastrelle è un altro tipo di cliente, e vendono senza problemi.
L’ultimo viaggio l’ho fatto con la Chiara. Agli inizi ci andavo col mio capo, ero un ragazzino, e lui mi dava lezioni sulla vita; essendo tutti e due dell’Appennino, non facevamo l’autostrada, ma salivamo per la valle del Dragone e poi scendendo, se c’era la neve a pareti, come se il Fiorino fosse un bob, lui giocava a fare i testacoda. Poi il capo ha traslocato, abbiam cominciato a prendere la Cisa, e non è più stato lo stesso.

Dal nostro versante la strada è distesa tra i faggi. Dall’altra parte è ripida e stretta, alla solìa fra i ginepri e i pelapecore; le felci da noi sono più piccole, e il muschio è un tappetino umido e basso, mentre di là è raro e sfilacciato come barba di capra. E curano ancora i castagneti.
È bella quella strada, perché porta in un mondo vicino eppure molto differente, che è la sensazione che mi provocano i toschi.
I toschi, per me che sono emiliano e confinante, sono strani. Li senti nel bosco, andando a funghi, ed è già diverso il modo in cui si chiamano, quando nel bosco ci si chiama per non perdersi: secchi e brevi, le donne cinguettanti, sicché sentendo due urla in un fosso, capisci subito se è un emiliano o un tosco.
E non sanno fare il cappuccino: già al passo è caffelatte senza schiuma.
Oltre il crinale sembra un mondo più sbragato, approssimativo, in cui per esempio non si vende e non si compra a prezzo fisso, ma si mercanteggia, piuttosto. E a me, assistendo a certe sceneggiate, i toschi han sempre dato l’impressione che se noi l’intelligenza la esponiamo, ed è facile prenderci le misure, loro invece la tengono da conto, con discrezione; la simpatia noi la mettiamo in piazza, compagnoni e ingenui, ma i toschi, che sono terribili, ne fanno un’arma custodita fra di loro, un’ironia sagace e anche cattiva. Come il compagno scaltro, scapestrato, che vorresti imitare ma non puoi, e ti mette soggezione; vorresti ingraziartelo, ma da un momento all’altro, dici Oddio, ora si accorge che stono.
Questo perché con i toschi, che per noi son quelli della Garfagnana, c’è una consuetudine di vicinato, che la Chiara per dire non ha, lei che sta dopo Modena in pianura, e la sento lontana più di loro. Ma è solo una fascinazione, perché so che siamo differenti, io e la Chiara, tanto quanto i toschi da noi. Mi ricordo che da piccolo ci rimanevo male quando li sentivo chiamare noi emiliani “lombardi”. “Lombardi” per me erano i platani, i pioppi, il frumentone, le puzze chimiche e i colori industriali, cose aliene. Alla Chiara, “lombarda” potrei dirlo quasi anch’io, tentando con la truffa di confondermi fra i toschi: per noi della collina, la provincia verso il Po, quelli sì sono posti sconcertanti, dove non si càpita mai.

La Chiara, il suo modo di fare, mi attirava e insieme mi allarmava. Non ci staccavamo per ore, ma c’era sempre una distanza. Da San Pellegrino, una sera, abbiamo visto il mare di nebbia stendersi sulla valle del Serchio e virare dal bianco fino al viola, con le Apuane erette là di fronte come mostri, io ero così felice di vederlo insieme a lei, avevo anche faticato per quel sabato – mia moglie mi credeva con mio fratello a funghi, e litigando mi aveva accusato di farmi sempre solo i fatti miei.
Ma la Chiara stava avanti di due passi, non sorrideva e non diceva Bello, semplicemente registrava, con gli occhi lucidi ma solo per se stessa.
Perché stai con me, mi chiedevo, e sembra che tu ci stia anche bene.
Sapevo che cosa m’aveva irretito: era più giovane, diversa dalle altre, e nuova al mio bisogno di conquista. Io avevo la mia ditta, gli orari stabiliti, e lei invece era tutto un cambiare programma e correre in bici da ogni parte, e mi portava a bere in posti in cui non avrei mai messo piede, dove più che guardarmi storto col mio golfino al collo mi ignoravano. Ma per lei, cosa significava? Non sprechiamo il nostro tempo insieme per parlarci addosso, pensavamo; l’ingenuità, destinata a venire infine al pettine, del vivere il bello senza chiedersi perché.
Quella sera siamo entrati nel santuario, a vedere i santi rinsecchiti nella teca, e poi nel bosco, mi son sentito stupido e sbagliato e smascherato: usavo quei luoghi dei toschi per sembrare pittoresco con la Chiara. Mostrarli a lei m’illudeva che a me fossero consueti, maneggevoli: ma non li possedevo per davvero. Chi lo sa quante abitudini devi avviare in un posto non tuo, per poterlo possedere un po’; se chi ci vive sia sempre consapevole e più vero di te nel possederlo, credo di sì, io che sento sfuggire anche i miei posti, quei periodi in cui resto chiuso in casa e disimparo a guardare le cose.

Eppure quest’inverno l’ho rifatto: ho chiesto alla Chiara se le andava un giorno dai marmisti col furgone. D’inverno era più complicato vederci, perciò m’è venuto in mente di trasformare il lavoro in una gita, e dopo andare in qualche ristorante sopra Massa, con le vetrate che guardano il mare, il vino dozzinale e qualche palma. Il mio giro solito sarebbe stato esotico, e per la Chiara tutto nuovo.
In tre anni con mia moglie non ci avevo mai pensato.
Come facevo un tempo col mio capo, dalle Radici siamo scesi a Castelnuovo, e di là ho svoltato per la Arni. È una strada di fondovalle angusta, dove sembra che non faccia mai giorno, le gallerie scavate nella roccia e i fuochi spenti dei motociclisti, i carboni ancora tiepidi e già umidi, le scritte sulle case cantoniere, ti sembra d’aver lasciato il mondo.
Sulla via di Stazzema ci sono i primi marmisti, scomodi in costa, che vendono quello che cavano, bianco calacatta arabescato; lungo il torrente s’infittiscono, le segherie ferme, le lastre che anneriscono fra l’erba, le ditte in via di fallimento, finché arrivi a Pietrasanta e sei nel piano, aperto, capisci dalle palme e dai tetti delle case che di lì a poco c’è il mare, ma non te ne curi: vedi il marmo, in blocchi e sui cassoni, appeso ai carri ponte, un polverone di camion che sbucano e vanno per stradine torte in cui si passa a fatica già con l’Ape.

Alcuni marmisti, negli anni, li abbiamo frequentati e persi, altri non hanno più voglia di perdere tempo con noi. A un tagliatore di mosaici è subentrato il figlio, scorbutico quant’era buono il padre; me lo ricordo che veniva ad aiutarci a caricare, un po’ timido, cotto dal sole, adesso è padrone e non ci apre.
C’è un altro, un signore triste, con gli occhiali senza montatura, che sta fra una scrivania e un termosifone a cui sono appoggiati gli stessi campioni di vent’anni fa. Anche i block notes sulla scrivania sono gli stessi. Non ha più dipendenti. Dice sempre, Vada pure là a vedere: là, è un roveto ricresciuto su un piazzale che d’estate è un frusciare di ramarri, e c’è qualche cassa di marmette in formati che non vanno più di moda, dove io e il mio capo un giorno trovammo un topo secco, schiacciato fra due marmi come una pergamena.
Ma il più delle volte limitiamo il giro a due con cui ormai ci si conosce bene.
Il primo è sull’Aurelia, ed è un buon uomo, con tre figli in ufficio e un dipendente fuori, che quando arriviamo salta giù dal muletto sorridendo, a torso nudo anche in novembre, e ha una stretta di mano che schianta: faceva anche lo stuart alle partite dello Spezia, e quando hanno girato James Bond sulle Apuane l’hanno preso per la sicurezza. Lavorava già all’età di dodicianni, arrivava camminando sui binari, e dal ponte ferroviario saltava sul ramo di un albero e scendeva da lì al magazzino. Ce l’ha raccontato il padrone: un bravo ragazzo. Mi sono accorto solo ultimamente che invecchiava.
Con la Chiara ho fatto come al solito: ho salutato in ufficio, ho chiesto di vedere il materiale, l’abbiamo scelto mettendolo su un pallet, senza disturbare l’operaio. Lei mi portava dei pezzi e chiedeva se andavano bene, che qualità di marmo era. Il vecchio, contata la metratura a occhio, ci ha fatto la bolla e ci ha offerto il caffè; l’aveva capito che lei, nonostante i bragoni sporchi di pittura, le antinfortunistiche e i guanti, non era mia collega, mia moglie men che meno, e ci ha chiesto se saremmo andati al mare a fare una bella mangiata di pesce.
Ma lei preferiva andare su per Montignoso, perciò abbiamo mangiato il cinghiale, abbiamo bevuto e riso, e dalla veranda, guardando là in basso, abbiamo detto che se non veniva tardi magari facevamo un salto in spiaggia.

L’altro marmista è in un vicolo nascosto. Ci andiamo solo se non abbiamo già trovato quel che serve, perché è micragnoso e pagando tocca parlamentare. Lasci il furgone sulla strada, vai a suonare il campanello; lui è sempre in casa che attende i compratori; esce sui gradini e si tocca la pancia.
Com’è? C’è lavoro su di là?
Non c’è male, e qua?
Si strappa il pane.
Parla urlando e sussurrando insieme:
O tu sai quanti clienti che c’ho io? Tremilacencinquanta. Dalle Americhe, fin dalla Cina.
Ma che noi vediamo non c’è quasi mai nessuno, se non sua sorella che sta dietro le tende, e il figlio che tira un carriolo assemblato con pezzi di legno e di ferro saldato e le gomme di quello che fu un passeggino, e amici del bar, intrallazzati nel marmo anche quelli, che passano a discutere delle loro questioni, e se arrivano che frughi, con quelle facce da sigaro che hanno cominciano a annuire e a sogghignare, e di nuovo tu capisci che ti prendono in giro oscuramente, quanto lontano sei da questi toschi, gente furba che si sa arrangiare, e tu sei oggetto della loro sufficienza, lombardo, bamboccio, ragazzino.
Il cortile è un magazzino, perché la casa è seppellita fra le pile di marmo alte quasi fino al tetto, e le finestre non hanno luce.
– E topa ce n’è? – dice lui.
Ma a noi interessa di più l’altro deposito che ha, oltre un canale, lungo una stradicciola di canne: è un campo gigantesco, dove le palette sono addossate in pile di cinque o di sei, sicché devi trovare sul bordo gli appigli per arrampicarti, e poi in cima saltare da una mucchia all’altra, cercando di non caderci in mezzo. La superficie su cui prendi il cocciame, togliendolo da sotto i tuoi piedi, nasconde strati che non vedrai mai, e certe pile sono crollate l’una contro l’altra, per sempre impossibili da smuovere. Quelle centrali, coi marmi così rovinati dal sole e dai licheni che ci vuole esperienza a riconoscerli, sono a duecento metri dalla recinzione: ha cominciato il bisnonno a impilarle, e sono rimaste sempre là. Cerchi i passaggi per raggiungere, di salto in salto, i punti in cui ricordi che ci fosse qualcosa di buono, badando che dove ti butti sia solido, e non scivoloso – se è appena piovuto, non si fa. Ammucchi i pezzi scelti in modo che restino visibili, poi tornerai a prenderli, in braccio un po’ alla volta e piano piano, facendo il percorso a ritroso e con più rischio visto il peso, fai avanti e indietro, avanti e indietro, finché non arrivi sulla recinzione con tutti i tuoi marmi. Lì uno scende a un livello intermedio e se li fa passare dall’altro, poi scende sulla strada e si ripete il passamano, e finalmente si può caricare. D’estate, col sole che picchia e le mucchie di marmo che abbagliano gli occhi, ti vengono i cali di pressione e ridi per la stanchezza, sei come un ubriaco. Ti siedi per riprenderti, prima di certi salti, che non sia la volta che cadi nel crepaccio.
Avevo insistito con la Chiara che non si arrampicasse sulle pile: lei non sopportava quel mio fare protettivo, è salita, ma si è stufata presto. Poco dopo l’ho vista a terra, che camminava: c’è un passaggio fra le mucchie, per il muletto, poi largo appena da passarci con le spalle, come un camminamento in un canyon di marmo, e sul fondo non batte mai il sole, e c’è odore di menta, di paglia e di piscia.
Ho continuato a lavorare, andando verso l’estremo del campo. Non c’era freddo per essere inverno: il sole che c’è là ti fa sempre venir voglia di toglierti la giacca. Ho girato per un’ora, avevo quasi fatto, quand’ho sentito lei che mi chiamava, da qualche parte più sotto.
Sono qui, le ho risposto, adesso scendo.

Mentre la Chiara camminava in quel budello, alle sue spalle è apparso un uomo con un cane. Lei si è accorta per primo del cane, che soffiava: era di quelli col grugno a pipistrello e il culo basso, che sbavano e soffiano più che ringhiare. Non aveva il guinzaglio, ma stava accanto all’uomo come se l’avesse.
L’uomo aveva il viso tondo rosa come quello di un tedesco non abituato al sole. La fissava senza parlare. Aveva un berretto floscio, da pescatore della domenica. Non sembrava voler farle niente, la guardava solo, come il cane. Era venuto dall’entrata del deposito. La Chiara aveva già visto che il sentiero andava a morire contro dei blocchi di marmo, così è rimasta incantonata, nell’odore di paglia marcia, non sapeva se spostarsi o se andare incontro all’uomo, per passargli accanto e lasciarlo lì al buio fra le mucchie. Ma appena l’ha pensato, il cane ha strisciato la pancia per terra e ha soffiato.
Allora lei mi ha chiamato, e l’uomo s’è girato per andarsene. Non è più sicura se l’uomo sia andato via sentendo me rispondere, o prima che lei mi chiamasse. Però si ricorda che appena è stato un po’ lontano, lei è montata su un saccone di ghiaia, da lì su una pila a metà altezza, e ci è rimasta finché non m’ha visto arrivare. Allora è scesa e mi è venuta incontro. Ma aveva le gambe molli, e nel saltare giù s’è fatta male. Le era sembrato d’aver solo messo male la caviglia, per questo non me l’ha detto subito.
È stata muta mezzo il viaggio di ritorno – temevo che fosse irritata per qualcosa, più che stanca: non è di quelle persone, come sono un po’ io, che quando sono stanche diventano cattive. Il mare l’abbiamo soltanto sfiorato. Quand’è stato il momento, lei non aveva voglia di smontare.

Ho voluto rifare la Arni. Forse ho sbagliato, pensavo, che la Chiara non fosse scocciata per quello, che non preferisse ritornare in fretta, per la Cisa, e non ne potesse più dei miei giretti. Ma ormai era andata, io silenzioso e lei rigida di fianco; abbiamo salito le strettoie sul torrente fino a Stazzema, poi Ruosina, Terrinca, con le case nere dallo smog dei camion, case morte prima d’arrivare ai tempi in cui si ripuliscono ogni tanto le facciate, e sempre un’Ape davanti: sembrava si dessero il cambio, cariche di ghiaia e di rottami; respiravo miscela e fumavo, e il sole del pomeriggio ormai era dietro e faceva luccicare di taglio le scarpate. Poi quel fondovalle deserto dove ogni casupola è abbandonata, e quel crepuscolo in anticipo e più lungo che viene lì in mezzo alle Apuane, che non è mancanza di luce per via della sera incipiente, ma l’ombra di montagne strette. In questa luce, poco prima di Isola Santa, ho accostato perché c’era un bar, a forma di vagone e baraccato.
È lì, scesi nello spiazzo, che mi sono accorto che la Chiara zoppicava, e lei m’ha raccontato quel che era successo al deposito.
Le dico, Perché non l’hai detto prima?, e inizia quella che forse era la nostra prima discussione, non pesante come quelle con mia moglie, ma di una compostezza che la rendeva più dolorosa. Non me l’ha detto, mi dice, perché temeva che andassi nei guai col marmista, perché avremmo perso del tempo, e aveva pensato che fosse una storta. Ma adesso le faceva proprio male, abbiam guardato la caviglia, era gonfiata a dismisura ed era blu. Adesso, le ho detto io, farmacie ce n’è una a Castelnuovo, chissà se è aperta, o a Pieve Fosciana, o niente fino a Frassinoro, quasi a casa. Siamo entrati nel baretto – era rivestito di perlinato, con il tubo della stufa in mezzo che bucava il tetto, e il pavimento di piagne di sasso, lei che zoppicava e s’è dovuta togliere la scarpa per il male. Ci guardavano tre vecchi smagriti, seduti sulle sedie di paglia spaiate. Uno sembrava il fante delle carte, però vecchio.
La stufa tirava male, e il fumo rimaneva dentro. Uno dei tre vecchi era il barista e si è alzato.
Gli ho chiesto se aveva una pomata, del ghiaccio, qualcosa. Lui dice: venite con me.

L’abbiamo seguito: un po’ eravamo scossi per la nostra discussione, io spaventato dalla gamba della Chiara, lei distante come non s’era mai sentita, non lo so, avevamo bisogno di smettere una gara di freddezza fra me e lei, per la quale ci facevamo pena; sentirci per un po’ rassicurati, nelle mani di qualcun altro. La Chiara, era in un mondo suo di segni – la faccenda del cane, di quello che forse era il figlio del marmista, da come l’aveva descritto: lo spavento vero era venuto raccontandolo, e si stupiva di non ricordare certi dettagli che poi le sovvenivano di colpo, e l’ordine cambiava, e si dilatava il tempo. Insomma, eravamo imbambolati.
Dietro il bar c’era un boschetto di noccioli. Ho spento il telefono. La Chiara ha raccolto un bastone e s’appoggiava. Il sentiero era battuto ma i rami non erano potati, come se non ci passasse mai nessuno, oppure qualcuno molto piccolo, perché a noi toccavano la testa. Usciti dai noccioli, c’era uno spiazzo con l’erba rasata dalle capre attorno ai cespugli spinosi, e una Seicento bruciata senza portiere con dentro qualche gallina. Dei piastroni in terra che facevano da scalinata per la casa, che era di sasso, col tetto di lamiera, addossata a una roccia.
Il barista ha bussato ai vetri e sulla porta è venuta una vecchia. Dal modo in cui si guardavano, lui spilungone e lei rimpicciolita, entrambi secchi come ci fosse poca pelle da sprecare sulla faccia, si capiva la loro intimità spiccia, più da fratello e sorella che da marito e moglie. Ho capito che la vecchia era una segnatrice. Aveva le mani linde, rosate e grinzose per via dell’acqua bollente e del vapore, perché stava scolando la ricotta: c’era un odore di ricotta da non respirare, lì dentro; il soffitto era basso e di legno, la stufa e una madonna in fil di ferro. Di sedie ne aveva solo tre: due le ha usate per far stendere la gamba della Chiara. Il fratello è andato con un mezzo cenno, come se non fosse più affar suo. Io son rimasto in piedi contro il muro: mi chiedevo se la segnatrice non mi preferisse fuori, ma volevo anche guardare e non lasciare da sola la Chiara.
La vecchia ha messo una pentola sul fuoco.
Ha tirato fuori un barattolo pieno d’erba secca, l’ha aperto e ne ha buttata una manciata nella pentola. Quando l’acqua è arrivata a bollire, l’ha vuotata in tre bacinelle; sembrava té. Si è bagnata le mani in ciascuna delle tre, e ha toccato la gamba della Chiara. Poi, con una moneta, le ha tracciato un segno della croce sulla testa. Intanto parlava, ma né io né la Chiara abbiamo capito cos’ha detto.
Infine ha appoggiato la pentola sul davanzale. Ci ha detto di aspettare un po’. Il cane di fuori uggiolava, noioso da dare la nausea, sembrava che stesse chiamando la neve. Mi sono reso conto che era andato avanti tutto il tempo.
Poco prima che venisse buio ha cominciato a cadere qualche fiocco di neve, freddissimo e poco convinto. Li vedevo dalla finestrella. La Chiara restava seduta, con la gamba stesa, e mi guardava poco. Aveva un’espressione placida e raccolta in sé, che al solito non mi attentavo a guastare. La vecchia non parlava, e neanche io. Guardavo la gamba della Chiara e pensavo a come avrei giustificato il mio ritardo.

Sandro Campani

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