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Firenze, 18 giugno 2013 – Si intitola proprio così, Ricordando Parronchi (con sottotitolo Artisti del Novecento in Toscana), la mostra voluta dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e dell’Università di Siena che si inaugura questo pomeriggio a Firenze, la città del poeta. Il catalogo, a cura di Emanuele Barletti e Luca Lenzini, è pubblicato da Polistampa, peraltro già editore, come avremo modo di dire più avanti, delle Poesie di Parronchi.

Alessandro Parronchi, Sandro per gli amici… Non saranno pochi i quadri e i disegni visibili in questa bella esposizione che rimanderanno con i loro autori e con i loro soggetti a quel variegato mondo culturale di cui Parronchi poeta e letterato è stato presenza di assoluto rilievo. Un percorso protratto, ricco di occasioni ed eventi, che ha il suo inizio negli anni della giovinezza: Parronchi – nato a Firenze nel 1914, e quindi perfettamente coetaneo rispetto ai suoi compagni di strada Mario Luzi e Piero Bigongiari – debutta come poeta nel 1941, pubblicando per i tipi di Vallecchi I giorni sensibili.

Sono gli anni dell’Ermetismo, importante movimento di ricognizione, aggiornamento e innovazione su quella che allora appariva per la poesia italiana «l’unica strada possibile e consentita»: una meditazione a sfondo etico-religioso sulla parola, nel rifiuto – citando ancora Carlo Bo dal suo celebre Letteratura come vita – di una «letteratura come illustrazione di consuetudini e di costumi comuni, aggiogati al tempo» e a favore invece di una letteratura di coscienza «che sale alle origini centrali dell’uomo»: un «discorso continuo e infinito», volto a riscoprire attraverso il concetto di «assenza» la realtà più vera che trascende l’uomo.

Attraverso le liriche dei Giorni sensibili e quelle della successiva raccolta I visi, uscita nel 1943 per le Edizioni di «Rivoluzione», Parronchi si situa di diritto, con piena ed immediatamente riconoscibile originalità di risultati, in questo quadro. A contraddistinguere la voce del poeta interviene una sostanziale distanza da un dettato oscuro di tipo analogico, cui corrispondono intenti di rappresentazione e comunicazione sulla scia di un composito, individualizzante recupero di modelli ottocenteschi pre-simbolisti, romantici di preferenza, non senza ibridazioni di tipo neoclassico, tra Leopardi e Foscolo, in una valorizzata disponibilità all’elemento descrittivo e, insieme, all’ascolto di profonde ragioni autobiografiche. Si stabiliscono in tal modo, da subito, i temi prediletti, riconfermati e continui della sua poesia: la giovinezza destinata a passare, l’amore, la solitudine, il dolore e la morte.

Risalgono a quel tempo, del resto, le prime collaborazioni di Parronchi alle riviste e le frequentazioni di letterati e artisti, molte delle quali poi stabilitesi come amicizie: dal cattolico-bargelliniano «Frontespizio» al vallecchiano «Campo di Marte» di Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, a «Letteratura» di Alessandro Bonsanti; e tra le frequentazioni, oltre a quelle dei personaggi citati, quelle di poeti, scrittori e critici come Luzi e Bigongiari, Carlo Betocchi, Luigi Fallacara, Oreste Macrì, Gianfranco Contini, Eugenio Montale, Arturo Loria, Romano Bilenchi, Giorgio Caproni e Umberto Bellintani. Tra i rapporti epistolari fondamentali e sicuramente da menzionare, oltre a quello con Pratolini, quello con Vittorio Sereni.

Spetterà agli anni della guerra e del dopoguerra siglare il bisogno di apertura rispetto ad un passato recente risoltosi nei termini dolorosi di allontanamento coatto ed obbligata disappartenenza, delegando alla poesia nuove possibilità e nuovi significati ed annettendo a questo nuovo corso, con altrettanta serietà ed attendibilità di esiti, l’importante lavoro di traduttore e saggista letterario già intrapreso: da Mallarmé a Nerval, da Maurice de Guérin al prediletto Leopardi.

La pubblicazione di Un’attesa, Per strade di bosco e città e Coraggio di vivere (rispettivamente 1949, 1954 e 1956) segnano così tappe di singolare rilievo nella carriera del poeta, profilando gradualmente le rimodellate «condizioni» della sua poesia. Ne deriva una del tutto antipetrarchesca ed antiermetica poetica dello sguardo, da «occhi sul presente» umanamente sempre più coinvolti anche nel tempo minore della cronaca. Formalmente parallelo, tra discorsività colloquiante e successivi intarsi di gnomica solennità, il «ritrovamento di un linguaggio ‘naturale’ della poesia a sancire un nuovo patto con gli altri» (Enrico Ghidetti).

Da questo «nuovo patto» si muoveranno, tra fedeltà ai grandi temi della sua poesia e originalità di dizione, i notevoli libri di versi di Parronchi venuti dopo: da L’apparenza non inganna del 1966 alle raccolte che a scadenza decennale il poeta offrirà al pubblico dei suoi lettori, da Pietà dell’atmosfera (1970) a Replay (1980), a Climax (1990), fino alla compendiaria antologia d’autore delle Poesie introdotta da Ghidetti del 2000 per i tipi di Polistampa, ad alcune terminali plaquettes e al Quaderno in ombra pubblicato postumo da Giovanna Ioli.

Marco Marchi  

Un anno

Mi vellica il vento dell’estate
scorsa con un motivo di canzone
e mi avvicino al davanzale il volto
di te che te ne vai, sicuro
di veder riapparire.
Per quante estati ancora? Forse l’ultima
è questa. O forse qualche altro anno il fato
di vita ci serba…
                                 Ma allora non decada
questa già tanto, per stanchezza o ignavia,
debole umanità.
Quello che abbiamo in noi
tutto e presto s’esprima.
Dopo vivremo giorno giorno
non più per noi, per gli altri.
Ma anche l’arte non è inutile, quando
non è chiudere gli occhi. Poesia
non è voltarsi indietro ma discernere
tra quel che all’uomo è di necessità
primaria, imprescindibile,
tra la fame la sete il sesso il sangue
e le cose di cui non può far senza,

la nostra cecità mascherata di scienza,
un rimpianto, un ricordo,
un sospetto di sopravvivenza,
un futuro già presente…

Retrospettiva di Rosai

Il ritrovarsi tra i tuoi quadri, Ottone,
a un venticinquennio dal tuo addio
 sulla curva dell’Arno al Girone
o lassù sotto il forte di Belvedere

l’ora che traccheggia sui muri
del caffè scordando l’eternità,
la strada tra i campi che s’allontana
dietro un sole che non è più mio,

l’arrotarsi dell’occhio degli amici
contro un cielo di burrasca… – ci conforta,
ci infonde più coraggio
per affrontare la morte.

Quel tuo sguardo bruciante di tenerezza
lo rivediamo oggi più calmo,
persa l’asprezza dell’invettiva
risentiamo la tua voce viva.

Spezza, Ottone, una lancia
se tu puoi nell’al di là, per noi.
Il ricordo che in te piange s’illumini
prima che questo giorno si consumi.

Diadema

Queste poche parole
che mi restano, ultimi detriti
di un tempio, o di una casa, ormai distrutti,
e come i vetri di un caleidoscopio
ricompongo, disordino, tramuto
in immagini nuove,
potessi farne un piccolo diadema
umile ma gradito!

Lo innalzerei, Maria, alla tua fronte
se al tuo viso potessi avvicinarmi,
se non fosse il tuo viso alto nel cielo…

E il cielo, in uno dei giorni più bui
dell’anno, come questo in cui tra nembi
piovosi tutti i sogni si distruggono,
si slargasse in un altro cielo azzurro!

Il cielo della nostra fede, e il cielo
della gioventù nostra, alto sugli alberi,
di cui pure fu detto che sarà
rovesciato come un vecchio vestito.

Alessandro Parronchi

(Da Replay le prime due poesie, da Climax la terza; in Le poesie, Polistampa 2000)

Leggi il post correlato L’unica ragione. Ricordo di Alessandro Parronchi

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