VEDI IL VIDEO La foce dell’Arno in «Meriggio» di D’Annunzio (letto da Roberto Herlitzka)

Firenze, 22 giugno 2013 –  Articolo pubblicato su “La Nazione” di oggi.

“Fiume di pensiero” a Bellosguardo

Grande appuntamento questo pomeriggio a Villa Caruso Bellosguardo a Lastra a Signa per la premiazione del concorso «Arno fiume di pensiero». Un concorso letterario da tempo affermatosi su scala nazionale che vanta al suo attivo una sua storia e proprio quest’anno celebra il suo decennale.

I testi, in versi e in prosa, giungono numerosi da tutta Italia e propongono sempre nuove coniugazioni del tema fluviale, dimostrando che l’Arno è un patrimonio ideale di tutti e che l’immaginazione attivabile sulle sue sponde può presentarsi dovunque e presso chiunque: eventi grandi e piccoli da raccontare o liricamente rivivere, storie e impressioni da comunicare agli altri attraverso la scrittura, non dimenticandosi dell’esistenza di una plurisecolare tradizione applicata al tema che va da Dante a Machiavelli, da Foscolo ai cantori novecenteschi dell’Arno: da D’Annunzio e Campana a Montale e Luzi, a Malaparte e Pratolini.

«Arno fiume di pensiero» festeggerà anche i vincitori delle due sezioni speciali: la prima, «Scripta volant», riservata agli under 25; l’altra, «Libero corso, libera corrente» (una novità di quest’ultima edizione), rivolta ai detenuti e realizzata in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Letture con musica a cura di Rosanna Gentili e Irene Di Gennaro.

Marco Marchi

Meriggio

A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se acolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l’isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.

La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d’aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l’oblío silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.

Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L’Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dell’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s’affina.

E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.

E la mia vita è divina.

Gabriele D’Annunzio

(da Alcyone, 1903)

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