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Firenze, 6 novembre 2013 – Caro Giacomo, con Inter nos, da poco in libreria per i tipi di Aragno, che libro importante, hai scritto! Per il lettore impegnativo quanto bello, e per te per molti aspetti decisivo come può essere un maturatissimo ed insieme sorprendentemente rivelatorio bilancio. Ma mi è capitato in questi giorni di rileggere la tua raccolta del 2006, Senza altro pensiero e torno a dirti, con rinnovata convinzione: che libro strepitoso anche allora scrivesti! Tutto strazio e delicatezza, limpido e misterioso, «altrove» e al centro di ogni altro pensiero, com’è delle parole della poesia.

Un canzoniere per la madre, Senza altro pensiero, in cui continuativamente il lettore si ritrova alle vertiginose altezze del tuo libro d’esordio: quell’indimenticabile Cella da cui nel 1994 ha preso l’avvio il tuo percorso di poeta, che mi permise allora di riconoscere in te un sicuro poeta della contemporaneità, da ascrivere senza timori a un quadro storico (la militanza, per noi, è proprio questo): Trinci, in una mia silloge di scritti critici, subito assieme a Tozzi, Trinci con Luzi e con Zanzotto (questo con generosa attinenza al vero pubblicamente mi riconosce oggi Paolo Maccari nella sua centratissima postfazione ad Inter nos).

Quel che è venuto dopo – da Voci dal sottosuolo al tuo Pinocchio in versi, al tuo recentissimo Inter nos di cui sicuramente sentiremo parlare  – è disceso da lì. Ma è con Resto di me e con Senza altro pensiero, prima del libro che potremmo definire libro di consuntivo e di crescita che è  l’odierno Inter nos, che i vincoli con le origini sono tornai a farsi più stretti, al punto che queste due raccolte mi si presentano come una sorta di splendido, bipartito corollario analitico a quanto Cella magnificamente registrava e quanto in Inter nos adesso culmina.

L’io – ecco il punto essenziale – risaliva in Cella all’«ante-vita» e partecipava allo scontro amoroso tra il Padre e la Madre: si insinuava nella stretta che lo faceva gemere e imprecare, nascere e morire, aggiungendo febbre a febbre, ansito a ansito, sporcandosi e amando fino in fondo, per poi ritrovarsi – le suggestioni di Rimbaud e del Pasolini delll’Usignolo già si autocertificavano – figlio appeso a quella croce, inchiodato.

Dominava in Cella una scena dell’arte che è scena amorosa: due forme di lotta di cui non è dato sapere l’esito, forse neppure le ragioni. Ma lo scontro avveniva, feroce, per via di cultura. Il manierismo di un rimatore d’amore e di tormento come Michelangelo non si risolveva in parnassianesimo a freddo o in vacuo progetto del postmoderno. La lievitazione dei sentimenti, e in primo luogo del sentimento top dell’amore, si trovava piuttosto costretta a delegare i suoi oltranzistici e scandalosi messaggi, per risultare naturale, all’abnorme e al falso, sino alle forzature antichizzanti, linguistiche e di situazione, del melodramma.

Il problema dell’arte e una casistica musicalmente potenziata, di valore archetipico, rivendicavano insomma, da subito, trattamenti e coniugazioni garanti dell’unica storicità concessa a chi scrive poesia, di chi tenta la vita proprio riconoscendo intriso di morte ciò che persegue con il fanatismo di un adoratore di beni intatti, di volti perduti e potenzialmente irremeabili.

In Senza altro pensiero la «cella» testualmente ritorna (penso al bellissimo quella era la sua camera – vedete – di p. 33 che qui si propone, ma i pezzi bellissimi non si contano), ed è di nuovo un luogo condiviso di vita e di morte di cui sei il caldo testimone, in cui carnalmente si riassumono e si lasciano raccontare la storia di tua madre, la tua e quella del mondo.

Bianca Garavelli ha scritto per te una postfazione ammirata e ricca di spunti, giustamente enucleando la funzionale presenza in Senza altro pensiero di modelli novecenteschi di «canzoniere alla madre». Ma mancano i due riferimenti più utili per capire: la «mari fruta» di Pasolini, passeretta sugli sfondi dialettali e in lingua di Casarsa, e quell’Anna Picchi tutta natura e rime aperte dei Versi livornesi di Giorgio Caproni.

«Vergine madre, figlia del tuo figlio», diceva il Poeta ultramondano. E come in Caproni, la tua «canzone» da nido pascoliano può dire alla fine, meglio di Freud, chi l’ha mandata: «suo figlio, il suo fidanzato».

Marco Marchi 

quella era la sua camera – vedete 

quella era la sua camera – vedete 
ogni giorno è da qui vive con me

da quando poi salendo queste scale
si sentiva più stanca fino ad ora
è qui il mio luogo che sorveglio fisso 
è in un secondo piano ed una porta

a vetri s’apre verso i campi ed oltre.
era stanca, diceva sempre più 
io sorvegliavo da lontano il cuore

io veglio ancora quello che non muore.
ora è ridotto all’osso è solo cella
astratto punto d’un astratto vero
tutto quello che è stato è un morso asciutto
è il sunto di un racconto della carne.

Giacomo Trinci

(da Senza altro pensiero, Aragno 2006)

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