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Firenze, 14 novembre 2013 – Ha dichiarato, in margine ai bellissimi Versi livornesi che costituiscono la sezione fondamentale del Seme del piangere, Giorgio Caproni: «Tentar di far rivivere mia madre come ragazza, mi parve un modo, certo ingenuo, di risarcimen­to contro le molte sofferenze e contro la morte».

Ed ecco Il seme del piangere, la dantesca causa delle lacrime svelata conclusivamente in una poesia proprio così intitolata, attigua a quell’Ultima preghiera che qui, nel nome della madre, si propone alla lettura e all’ascolto.

Un bambino «debole come un cerino» in una città grande, immensa e sconfinata per lui, ha cercato per tutto il giorno «la mamma-più-bella-del-mondo», ed essa non c’è più, è via, si è separata da lui, l’ha lasciato. Il bambino piange «nel buio d’un portone», è il solo ad aspettare il passag­gio di Annina, a richiederlo in una città smisurata, irriconosci­bile, fatta di attese vuote: «Quanta Livorno, nera / d’acqua e – di panchina – bianca!»; «Via era la camicetta / timida e bianca, viva. / Nessuna cipria copriva / l’odore vuoto del mare / sui Fossi, e il suo sciacquare» (vv. 1-2, 17-21). Il poeta ha già scritto in A Giannino: «l’amore mio che stava ad aspettarmi / solo su una panchina» (vv. 3-4). Annina, intanto, è in un bar di stazione, anche lei confusa, incapace perfino di scrivere al figlio una car­tolina che dica, rasssicurandolo: «Caro, son qui» (Ad portam inferi, v. 30).

L’anima di Caproni, l’arte, è supplicata adesso di pedalare, di volare come Annina ciclista. Ora la fretta è la poesia. La polisemia del termine anima è garantita da una fonte sicuramente te­nuta presente, come testimoniano analogie tematiche (il moti­vo del temuto disviamento), puntuali rimbalzi lessicali {conge­do, va’, leggera), un impiego rimico soltanto rovesciato: «Deh, ballatetta alla tu’ amistate / quest’anima che trema raccoman­do: menala teco, ne la sua pietate, / a quella bella donna a cu’ ti mando». Si comincia con Dante e si finisce con Cavalcanti e ancora con Dante, se nel «dille» del v. 80 si rivela attivo il ricordo del canto VII del Paradiso, vv. 10-12: «Io dubitava, e dicea ‘Dille, dille!’ / fra me: ‘dille dicea, alla mia donna / che mi disseta con le dolci stille».

Ma è il momento, dopo tanto aspet­tare, di far arrossire Annina, di gettare la sigaretta che il poeta ha dato all’anima per farsi coraggio e avvicinarsi alla donna. Alla fine il messaggio sussurrato all’orecchio consiste nel dire soltanto da parte di chi è l’ambasciata: «suo figlio, il suo fidanzato».

Marco Marchi 

Ultima preghiera

Anima mia, fa’ in fretta.
Ti presto la bicicletta
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.

Arriverai a Livorno
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nei buio, volta al mercato.

Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un’altra, sulla stessa strada.

Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.

Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.

Ricordati perché ti mando:
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisterone.

Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.

Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accostati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.

Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mormorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.

Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.

Giorgio Caproni 

(da Il seme del piangere, 1959)

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