VEDI I VIDEO Giovanna Bemporad dice e commenta versi dell’ “Odissea” , L’inizio del poema , Poesia senza trucchi

Firenze, 9 febbraio 2014 – Dopo la splendida poesia di Brodskij di qualche giorno fa (e magari anche dopo Foscolo), di nuovo Ulisse, e secondo l’accezione letteraria base rappresentata dal poema omerico: l’Odissea qui tradotta e letta, nel celebre passo della discesa all’Ade e dell’incontro di Ulisse con la madre, da Giovanna Bemporad.

La Bemporad  – di origini ferraresi, scomparsa a Roma, la città in cui viveva, un anno fa – è stata una pregevole poetessa e una memorabile traduttrice. Fu amica di Pasolini e di Ungaretti.

Un’intensa rievocazione del suo anticonformistico e decisivo rapporto intellettuale instaurato durante gli anni scolastici bolognesi con il giovane Pier Paolo Pasolini (sullo sfondo di questa amicizia giocata anche su una accomunante diversità sessuale, oltre a Bologna, un’estiva, assolata, mitica Casarsa friulana tra frequentazioni pedagogico-popolari, alta cultura letteraria e iniziazione politica) si legge nella Vita di Pasolini di Enzo Siciliano.

Di origini ebraico-ferraresi, Giovanna Bemporad ha affidato la propria poesia ad un unico volume di versi intitolato Esercizi, apparso per la prima volta nel 1948, riproposto in seguito da Garzanti e giunto di recente a due edizioni ampliate di consuntivo, comprendenti le poesie della vecchiaia. Ha tradotto, oltre che Omero,  anche dall’Eneide di Virgilio e, integralmente, l’Elettra di Hugo von Hofmannsthal.

Un’ultima considerazione. Si noti come il testo recitato nel primo video dalla Bemporad risulti in più punti variante rispetto al testo a stampa qui riprodotto, secondo quella instabilità di lezione nel tradurre Omero cui la traduttrice espressamente si riferisce nei commenti conclusivi del primo video: instabilità che provoca peraltro, come ancora il filmato documenta, un inciampo nella peraltro bella lettura a memoria del brano.

Marco Marchi

Da Odissea, libro XI

Quando viene l’estate o il ricco autunno,
per lui bassi giacigli di ammucchiate
foglie si fanno ovunque, sul declivio
del florido vigneto; e qui egli giace
dolente, accresce in cuore la sua pena
sognando il tuo ritorno, e una vecchiezza
dura gli è sopra. Anch’io cosi mi spensi,
vinta dal fato; non mi colse e uccise
nelle mie stanze coi suoi miri dardi
l’infallibile Artemide, e un malanno
non mi assalì, di quelli che dal corpo
con lento logorio strappano l’anima:
ma il rimpianto di te, nobile Ulisse,
del tuo senno e del tuo tenero affetto
mi ha tolto il bene della dolce vita”.
Disse; io tentai, con l’animo in tumulto,
la madre morta stringere al mio petto.
Tre volte mi slanciai, spinto dall’ansia
di afferrarla, e tre volte dalle braccia
mi volò via, simile ad ombra o a sogno;
sempre più mi cresceva in cuore acuto
strazio, e a lei mi rivolsi supplicando:
“Madre, perché non resti, se io mi struggo
di abbracciarti, così che entrambi al collo
gettandoci le braccia, anche nell’Ade,
gustiamo l’acre voluttà del pianto?
O forse a me questo fantasma l’alta
Persefone ha mandato, perch’io debba
più forte ancora piangere e dolermi?
Dissi; e con voce fioca mi rispose
l’augusta madre: “Ahi, figlio mio. tra gli uomini
tutti il più sventurato, non la figlia
di Giove, non Persefone ti inganna:
si muta in questa forma. quando muore,
l’uomo mortale; i tendini disfatti
non congiungono più le carni e le ossa,
tutto divora l’impetuosa furia
del fuoco ardente, appena esce la vita
dalle ossa bianche; vola via per l’aria
l’anima, e si dilegua come un sogno.
Ma tu tendi al più presto a ritornare
verso la luce, e tutto serba in mente
per ridirlo, più tardi, alla tua sposa”.

Omero 

(da Odissea, traduzione di G. Bemporad, Le Lettere)

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