VEDI IL VIDEO La vita e le opere: “Tozzi, la scrittura crudele”

Firenze, 11 marzo 2014 – Per festeggiare l’uscita di una nuova edizione del romanzo: Il podere, Firenze, Le Lettere, 2014.

Il podere comincia laddove Ricordi di un impiegato – soprattutto nella loro primissima redazione, in cui chi è ammalato e presumibilmente morirà è il padre del protagonista e non una fidanzata di nome Attilia – finiscono: «Nel millenovecento, Remigio Selmi aveva vent’anni; ed era aiuto applicato alla stazione di Campiglia. Da parecchio tempo stava in discordia con il padre e non sapeva che al suo piede bucato da una bulletta delle scarpe era ormai venuta anche la cancrena. […] / Ma una sera ricevette una cartolina dal chirurgo che lo curava; nella quale era scritto che la malattia non dava più a sperare. / La fece leggere al capostazione; ed ebbe il permesso di partire subito, con il diretto che era per passare».

Attenzione! Quel biografico «piede bucato» foriero di morte aggetta già su cristologici scenari da Golgota, anima ed inconscio tornano per chi scrive, per via di cultura, a convergere, a saldarsi. Alla puntualità di una prosecuzione meramente cronologica fa in realtà riscontro il senza-tempo di una storia segreta, protratta da sempre, radicata nel «profondo»: un rapporto esistezialmente fondante e che ne determina tutti gli altri; un tema privilegiato, categorialmente assunto ed assolutizzato, di cui tuttavia l’intera opera di Tozzi si impegna a cogliere le più sensibili articolazioni interne, rigorosamente registrando – assieme ad impossibilità e immutabilità – opposizioni e contraddizioni, simultaneismi e sincretismi. Dominano le imprevedibilità soggioganti dei «misteriosi atti nostri», di quegli atti legati a insindacabili pulsioni inconsce che altrove Tozzi, sostenuto da un’ampia cultura psicologica pervenuta perfino a informazioni di tipo freudiano, definisce «movimenti determinati da cause ignote» (La conscienza, in Barche capovolte).

«Perché fare i figliuoli crocifissi?», aveva scritto Tozzi a Emma, allora sua fidanzata, in una delle bellissime lettere di Novale (20 ottobre 1907). Già in Con gli occhi chiusi quella onnicomprensiva forma di pietas leopardianamente emancipatasi dalla rappresentazione di supplizi risulta oltremodo efficiente, tanto da annettere al suo interno, senza preclusioni e resistenze, la figura stessa di Domenico (Dominicus, l’uomo di Dio) quale appare sul finire del romanzo: un despota desautorato, irriconoscibile, patetico, più che mai imprendibile e misterioso, costretto – lui detentore del comando, il Dio che tutto può e tutto vede per un Pietro mai diventato adulto ma che in quel momento crede di poterlo diventare – a tacere, a doversi distrarre. «Seduto su la sedia che gli serviva da più di vent’anni – è uno dei bellissimi paragrafi conclusivi del romanzo –, lo seguiva con lo sguardo tenendo le mani in tasca dei calzoni e appoggiando al muro il capo già calvo. Ma non diceva niente, procurando di distrarsi con i servi e con qualche cliente che andava a salutarlo».

Una sorta di scomparsa anticipata del terribile padrone della luce che Domenico fu, una sorta di morte pregressa, che è, insieme, l’addio vendicativo e commosso, illusorio e forse del tutto presunto, di Pietro all’infanzia lasciata alle spalle. Ghìsola non sarà in grado di svolgere alcuna funzione di riscatto, l’ingresso di Pietro nel mondo degli adulti si rivelerà di lì a poco (traumaticamente, con il ritrovamento della ragazza a Firenze, incinta di un altro uomo e avviata alla prostituzione) un’illusione: «Ma le nostre vicende intime – come si legge nel poema in prosa Paolo, risalente al pari dell’atto unico L’eredità all’indomani della morte del padre – sono inevitabili. La conscienza è la resistenza che opponiamo loro».

Il cerchio perfetto che Tozzi e l’enigmatico padrone della luce hanno voluto si infrange e subito si ridisegna: il dialogo che continua – muto, notturno, del tutto interiore e implacabilmente necessario – si riconferma quello tra padre e figlio: «Spenta la candela – è ancora Pietro che pensa di poter abbandonare la sua vecchia vita –, si voltava dalla parte del muro e dormiva. / Domenico, verso la mezzanotte, attraversava la camera, con in mano la lucerna di ottone. E allora Pietro si destava e gli veniva voglia d’alzare il capo. Ma l’altra porta si richiudeva; ed egli rimaneva con quello scontento di quando è interrotta una disposizione d’animo».

È la prima e l’ultima notte di Pietro Rosi, «con gli occhi chiusi», ma con la riconfermata consapevolezza – come ancora in Paolo si notava – che «V’è un gran segreto dentro di noi. E ci affacciamo in vano su l’abisso. Le tenebre prendono i nostri occhi». Da qui – dimentichiamoci pure tutto il resto – Tozzi ricomincia a narrare: con Remigio Selmi al cospetto di un sorprendente, davvero estremo camaleontismo del padre o al cospetto della verità, al capezzale di un padre che morendo si fa Gesù, un sofferente e assetato Cristo in croce, un figlio di un altro padre.

Marco Marchi

Da “Il podere”

Arrivò alla Casuccia la notte: tre miglia da Siena, fuor di Porta Romana; e, trovato l’uscio aperto, entrò nella camera del padre senza che prima nessuno lo vedesse. 
Giacomo era desto e appoggiato a quattro guanciali; mentre due delle assalariate, Gegia e Dinda, gli sostenevano le braccia lungo la coperta, attente a mettergliele in un altro modo quando non poteva stare più nella stessa positura. Sopra il canterano, una lucernina di ottone; con tutti e quattro i beccucci accesi. 
Remigio salì in ginocchio sul letto. Ma Giacomo, che aveva la testa ciondoloni sul petto e gli occhi chiusi, non se ne accorse né meno. Allora, gli chiese: 
«Non mi riconosci?» 
Dinda disse sottovoce: 
«Lo lasci stare, padroncino! Soffre troppo e non le può rispondere.» 
«Mi risponderà, spero.» 
«Ha fatto male ad entrare senza avvertire.» 
Ma Remigio non badò a quel rimprovero; e disse, sebbene sapesse che non gli credevano: 
«Vorrei che mi riconoscesse.» 
Giacomo alzò, a poco a poco, faticosamente, il volto; e guardò il figlio ma non se ne fece caso: le sue labbra si erano affloscite e screpolate, deformando la bocca; gli occhi non erano più neri; ma, con le sclerotiche gialle e segose, le pupille parevano vizze. Le mani, che le due donne  avevano lasciato, appoggiate dalla parte del dorso e aperte, cercavano di chiudersi senza riuscirci. 
Remigio, perché non lo brontolasse di essergli andato così vicino, gli chiese un’altra volta, pur non avendone più voglia, per quell’indifferenza che, a rivederlo, gli era tornata: 
«Non mi riconosci?» 
Il malato, come se avesse voluto fargli capire che non gliene importava nulla, rispose: 
«Non ti devo riconoscere? Non sei Remigio?» 
E ricominciò subito a gridare. Allora, le due donne lo voltarono di fianco, strascinandolo in proda. 
«Quanto soffro! Così non posso stare! Alzate le coperte!» 
In quel mentre entrò Luigia, la sua seconda moglie: prima, si era fermata ad ascoltare il figliastro; e, senza salutarlo, ficcò le mani sotto le lenzuola per tenerle alzate. 
«Mettetemi le gambe fuori del letto!» 
«Ti farà freddo.» 
«Non importa: obbeditemi.» 
Allora, Gegia e Dinda gli cavarono le gambe fuori del letto, con i due piedi gonfi e fasciati 
che avevano un esasperante e triste odore d’iodoformio. Quell’odore toccò l’animo di Remigio. Luigia esclamò: «Poveretto! Tu, Remigio, non hai visto le sue gambe sfasciate!»
Gegia fece un gesto di orrore; Dinda si asciugò gli occhi. Allora, Remigio appoggiò la testa ai ferri del letto e stette zitto; mentre quel che facevano dinanzi a lui gli pareva di vederlo da tanto tempo. 
Giacomo era abbastanza ricco. Nato da un fattore, che gli aveva lasciato circa ventimila lire, era riuscito a triplicarle. Mortagli la moglie, madre di Remigio, prese con sé una ragazza di campagna facendola passare per serva. Poi, per mettere in pace i pettegolezzi, sposò Luigia, che allora era una zitella piuttosto matura: doveva ereditare un poderetto ed era stata la sarta della prima moglie. Prese anche, perché gli avrebbe fatto comodo, la figlia d’una sua nipote: aveva, allora, dodici anni e si chiamava Ilda. 
La sera stessa del matrimonio, Luigia si raccomandò a Remigio di volerle bene e di dirle tutta la verità delle chiacchiere che si facevano; e il figliastro le confermò i sospetti su Giulia. Ella pianse e si fece promettere da Giacomo che l’avrebbe mandata via; ma, invece, dopo pochi mesi, Giulia prese sempre di più il sopravvento; e Giacomo si divise di letto dalla moglie. 
Ma come poteva piacergli quella ragazza? Magra e gialla, quasi rifinita; con i denti guasti e lunghi; un’aria stupida e gli occhi del colore delle frutta marce. E, a venti anni, già vecchia e logorata. 
Erano più di sette anni che Remigio la sopportava; ma, sempre di più, la sua avversione cresceva; e, d’altra parte, l’odio di Giulia faceva altrettanto; perciò quasi tutti i giorni, Giacomo e Remigio questionavano. Alla fine, il figlio dovette andarsene; e, dopo aver patita anche la fame, era riescito ad avere quel piccolo impiego. 
Tali cose, con la sonnolenza e la stanchezza, gli ritornavano a memoria, rapidamente; mentre pareva che il moribondo non lo vedesse né meno. Allora, si scostò dal letto; e si mise a sedere nell’ombra che faceva una scatola vuota accanto alla lucernina. 
Una grande tristezza lo invase, sentendo confusamente quanta ambiguità gli era attorno; e come, tra qualche giorno soltanto, egli si sarebbe trovato a contrasti violenti e insoliti. 
Infatti, Giacomo aveva promesso a Giulia di lasciarle tutta la parte del patrimonio che la legge avrebbe consentito di togliere al figlio. 
La ragazza, quand’egli senza rimedio peggiorò della gamba, portò via, aiutata dalla zia, quanto le fu possibile: lenzuola che non erano state adoprate mai, strumenti agricoli, il letto dove avrebbe dovuto dormire Remigio, le posate, i gioielli della prima moglie, i vestiti; e vendé perfino tre botti piene. 
Luigia, che s’avvedeva soltanto in parte di queste cose senza avere mai il coraggio di verificare i suoi sospetti, anche per paura del testamento, seguitava a non dirne parola, obbedendo anzi a Giulia; specie quando il suo dolore sincero le fece perdere la testa. 
Remigio, sentendosi straziare, e vergognandosi di non saper far niente, si alzò; riuscendo abbastanza ad essere calmo, perché voleva comportarsi come se tra lui e suo padre non fosse accaduto mai niente. E, non avendo incontrato Giulia, ne provò quasi piacere; quantunque indovinasse che ella stessa non aveva voluto farsi vedere. 
Egli aveva gli occhi di un castagno chiarissimo e limpido, che non somigliava a nessun altro, quasi sbiadito; qualche volta, pareva che tremassero e si accendessero come quelli dei conigli. I baffi, meno biondi dei capelli, d’un colore bruciato, erano attaccati con le punte alle guance; il mento un poco tondo e forato nel mezzo. Il suo viso, quasi sempre rassegnato, era ora doventato febbrile. 
Non stava più a capo basso, e gli sussultavano i muscoli della mandibola. Si riavvicinò al capezzale, e disse al padre: «Tornerò domattina.» 
Gegia rispose, in modo molto significativo, a cui egli non fece caso: 
«Lo assistiamo noi.» 
Giacomo, guardatolo appena, gli disse, come se non ce lo volesse: 
«Addio!» 
Remigio, allora, rientrò in città, e dormì ad un albergo.

Federigo Tozzi 

(da Il podere)

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