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Firenze, 22 novembre 2014 – Fernando Pessoa diceva che «la letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta»: la letteratura e l’arte sono, in altri termini, la vita che ci manca. Sta di fatto che il mistero della Chimera campaniana è un connotato della poesia, una sua marca rivelatrice, secondo quella comportamentistica speculare, mimeticamente accordata all’ambiguità sfuggente che ne caratterizza la sostanza: la sua fondamentale imprendibilità, la sua intraducibilità di oggetto referenziale per eccellenza che, incontenibile da parte di qualsiasi traduzione, parafrasi o circonlocuzione, rinvia soltanto a se stesso.

Campana, prima che il suo conato vocativo rivolto alla Chimera si manifesti e si faccia via via più esplicito e cogente, confessa una sua incapacità: «Io non se…», fin dall’inizio.  Ma è proprio da quella incapacità chiamata in campo, da quella condizione di instabilità e insicurezza immediatamente esibita e partecipata al lettore, che la modernità della sua poesia si emancipa.

L’invocazione di Campana per dichiararsi compiutamente si fa visione, visività pronta già a sua volta, investendo e confondendo piani e pertinenze del reale, visionarietà. Il naturalismo e l’impressionismo nella poesia dei Canti orfici deflagrano, il simbolismo biologico e nel contempo storiograficamente coniugato di Campana si fa cangiante, si drammatizza, straripa e trabocca dappertutto, mentre l’espressionismo è pronto dovunque a trionfare e divampare, incupendo con la sua scura fiamma ogni perlaceo scenario della suggestione, ogni parvenza del reale abbellita da nuances, impreziosita da luminosi aloni di superficie esistenzialmente fallaci, solo seduttivi ed ingannevolmente avvincenti o consolatori.

La poesia dei Canti Orfici è poesia culturalizzata, è sempre bene precisarlo, e anche negli storiografici termini attraverso i quali stabilisce la propria incidenza di messaggio si dimostra poesia impossibilitata a rivendicare comodi contrassegni identitari, facili abitabilità e domiciliazioni: «lineamenti fissi», potremmo dire, «stabili possessi» citando un celebre «osso breve» che pochi anni dopo avrebbe scritto Eugenio Montale, rivolgendosi non alla Chimera ma tout court alla propria vita.

Quel Montale cantore della negazione della parola che squadri da ogni lato un’umana «anima informe»; quel Montale in attesa del miracolo conoscitivo della poesia che trova – come in Campana e come in un celebre sonetto di Foscolo, Alla sera – l’incipit di una altro suo «osso breve» come Forse un mattino andando…; quel Montale che in veste di critico, lettore dotato di poesia altrui, tra vita e cultura, psicologia e linguaggio, definirà mirabilmente la poesia di Dino Campana nei termini di una «poesia in fuga», cogliendo in una sorta di sempre inappagato, sintattico e sonoro dinamismo l’alto grado di instabilità da cui la stessa richiesta di poesia avanzata dal poeta e da lui strenuamente perseguita muove, ad essa sostanzialmente ritornando ma in espressionistici e visionari termini d’arte realizzata, per imprevisti straripamenti ed esondazioni di senso.

La veggenza si fa erranza, richiamo accondisceso a quegli oscuri luoghi dell’«altrove» e della «seconda nascita» di cui un altro grande poeta del primo Novecento, l’autore delle Elegie duinesi, Rilke, ci parla. Analogamente, coerentemente, la poesia dei Canti orfici sarà poesia della notte, e Campana sarà poeta per antonomasia «notturno», espressamente disposto secondo queste modalità e questi connotati si afferenza orfica a certificarsi internamente a un testo come La Chimera. Campana scrive d’altronde, prosimetricamente aperto, le mirabili pagine della Notte, come si fa evocativo, impaurito e impavido cantore del Canto della tenebra: riconfermando attraverso questa vocazionale e programmaticamente rafforzata frequentazione del buio e della profondità la sua appartenenza storiografica a forme e prospettive del moderno.

Marco Marchi 

L’invetriata

La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? C’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è,
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente.

Dino Campana 

(da Canti orfici)

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