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Firenze, 13 dicembre 2014
La morte

Morire! Una camera muta
e un letto profondo: lontano
la fiamma d’un vespro sanguigno
che splenda tra i cento comignoli
d’una città sconosciuta:
giacere in quel letto profondo;
udir con un senso inumano
d’angoscia il confuso lontano
eterno fragore del mondo:
sentire che per riposare
un sonno profondo non basta,
ma occorre una pace più vasta;
sentire che tutto scompare
per sempre, che il sogno dilegua
per sempre, che tutto è fuggito
per sempre, che tutto è finito;
sentire vicina la tregua;
compiere il gesto improvviso:
il sangue che sfugge dal viso,
il senso indicibile, ignoto,
di precipitare nel vuoto,
di precipitare per sempre,
di divenir preda del niente…
un senso di gelo, fugace,
poi nulla. La morte. La pace.
Giacere in quel letto profondo,
già morto: sul volto, il suggello
della Verità spaventosa,
della Verità che si sposa
con l’uomo ch’è uscito dal mondo
e agguaglia il deforme col bello,
e agguaglia l’ignaro e il saccente
nel placido regno del niente:
giacere in quel letto profondo
più immobile ancora di quando
si dorme: dell’unica buona
immobilità che traspira
dal volto di chi non respira,
dal corpo di chi s’abbandona;
il drappo che va disegnando
piú profondamente le forme
del rigido corpo che dorme
per sempre: poi ecco apparire
la prima dissoluzione
che sforma e dev’essere come
se si continuasse a morire.
Giacere in un letto profondo,
già morto: ecco il solo momento
di vero riposo nel mondo!
Piú tardi la terra ci afferra
e penetra e sbriciola in polvere
e volge in sé stessa ed evolve
e dissipa in preda del vento:
ma il letto sul quale si muore
concede per quarantott’ore
la pace assoluta, infinita.
Nessuna forma di vita
si svolge in quel tempo dal fondo
dell’uomo mutatosi in cosa;
quella materia riposa;
non vive, non vede, non sente:
sfasciandosi gradatamente,
rinunzia all’enorme fatica
di dover essere unita.
Natura, o burattinaia,
come raduni i tuoi fili
a tempo, perché l’uno appaia
e l’altro scompaia! Rigiri
i fili che agli esseri umani
fan muovere i piedi e le mani
e torcere gli occhi e la bocca:
quindi, infallibile, appena
è tempo, il fantoccio a cui tocca
scompare per sempre di scena.
Tarderà molto a finire
questa ridicola farsa?
Io sento che fo da comparsa
e che non ho niente da dire.
A che immaginarmi già estinto?
Parlare senza morire
di questo piacere vuol dire
non esserne bene convinto.
O morte, la nostra miseria
è grande: la nostra materia
che soffre ed invoca l’oblio,
gridando pur sempre: – Non voglio
morire! – s’abbarbica all’io
così disperatamente,
come il mollusco aderente
con tutte le forze allo scoglio:
l’io per ciascuna persona
è come un’amante noiosa
che stanca sopra ogni cosa,
ma che tuttavia non si dona;
l’amante che più non si varia,
compagna in piaceri e malanni
e che, con l’andare degli anni,
diventa vieppiú necessaria;
l’amante un poco volgare
che ha verso di noi mille cure
e che spesse volte neppure
ci si accorge di sopportare.

Carlo Vallini 

(da Un giorno, 1907)

Nella foto: gruppo di amici, tra cui Guido Gozzano e Carlo Vallini.

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