P.P. Tarasco, Il Pellegrino, aquarello, 2000VEDI I VIDEO Perché leggere, perchè scrivere , Contdown 2015

Firenze, 31 dicembre 2014 – Cari amici, eccovi, per ricordare e per festeggiare, un florilegio di quanto avete scritto durante l’anno a commento dei post giorno dopo giorno apparsi in queste Notizie!

Evviva, auguri, che il 2015 sia per tutti un anno pieno di gioia e serenità! Sempre in viaggio, soli ed insieme, pellegrini delle poesia… E vorrei salutarvi con questi magnifici versi di Luzi, che celebrano mischiati insieme, com’è proprio del nostro destino di uomini in cammino,  il mutevole ed il durevole: “Il punto vivo, la primavera del mondo / che sfolgora e recede all’infinito / negli occhi dell’altro / nell’ora che il pensiero condiviso / in pieno sopprime l’ombra / e detto e non ancora dicibile / illuminano nella mente reciproca / il punto vivo, il punto pullulante dell’origine continua…”. Auguri!

Marco Marchi

Giacomo Trinci
La sublime risacca sonora che, come una rete sottile e spessa, percorre la poesia di Caproni “Il mare come materiale” da cima a fondo, dà forma alla musica magra e possente del mare. Difficile eguagliare il senso di risonanza infinita che si sprigiona da questa partitura musicale. Sì, perché in questi versi assistiamo alla miracolosa, impercettibile trasformazione di un testo poetico in una partitura musicale vera e propria. Non più la “musicalità” esteriore della poesia, ma proprio la musica come sua sostanza che spenge ogni attributo esteriore in nome della sua verità. Un capolavoro!

framo
Predisponiamoci. È tempo di adunare gli elementi (ombra, vento, prodotti della terra…), di arrivare preparati e maturi all’ora dell’estrema raccolta. Come per la sua Euridice, ogni frutto possa giungere “pregno di dolcezza e d’ombra” all’incontro segnato con il grande freddo che c’è, c’è stato e che ci aspetta. Seguendo l'”altro” suo “respiro”, il suo “calmo alito”, non dimentichiamo che la radice è pur sempre in noi. Fonte inesauribile di raffinata emozione: Rilke, per sempre. Grazie.

Daniela Del Monaco
Agli uomini, consapevoli di non essere ascoltati, non rimane altro che un urlo “senza voce”. Un grido scenico, quello de “La Pietà” di Ungaretti, quasi mimico, in un silenzio ormai troppo figurato, per cui il grido diviene immagine di se stesso, non più suono. Torna alla mente “L’Urlo” (1893) di Edvard Munch, dipinto simbolo del dolore inesprimibile e non possiamo non citare la sequenza cinematografica più celebre de “La corazzata Potemkin” (1925) di Sergej Ejzenstein: il primo piano della madre che emette un grido disperato, non udibile dato che si tratta di un film muto, mentre, impotente, vede precipitare dalle scalinate la carrozzina con dentro il figlio neonato. Il grido de “La Pietà” produce, infine, un immediato collegamento letterario con “l’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo”, sinestesia presente nei versi di “Alle fronde dei salici” (1945) di Quasimodo.

tristan51
Non solo Giovanna d’Arco… “Più chiostrata ero di Chiara, di Teresa d’Avila, / Gertrude e Caterina” (“Rito di novilunio”, in “Transito con catene”). La poesia della Spaziani come vocazione, come consacrazione.

Duccio Mugnai
È straordinario questo frammento originale in lingua greco-antica. Alcmane, inoltre, viene riattualizzato soprattutto attraverso le due traduzioni di Quasimodo e Pascoli, entrambe capaci di evidenziare il lato misterico, mistico, segreto e simbolico delle manifestazioni naturali, come se il cosmo, le valli, l’intera natura fossero un’immensa, meravigliosa ed affascinante metafora di qualcosa di “metafisico” e divino, qualcosa che va al di là della semplice esperienza corporea e sensoriale. È di un mondo “magico”, o forse addirittura religioso e disvelante. Come nel film Mediterraneo la lettura della poesia sembra la recitazione vivida di una formula per pochi adepti, in cerca della vera esistenza. Probabilmente, ripeto, un inno misterico-religioso sulle forze occulte della natura che si manifestano in modo dirompente ed inarrestabile, cioè l’amore, il sesso, l’amicizia, l’avventura come viaggio e il sogno come fuga.

Cesare
Divertente poesia di Giacomo Trinci, questo poeta moderno e contemporaneo che, devo dire, non conoscevo, dal ritmo poetico musicale ben calzante, arguto come tutti i toscani. Poesia che prende spunto dal burattino tanto caro alla nostra infanzia, che qui si veste di un’ulteriore morale, alla luce dei nostri giorni. Pinocchio, in sostanza, siamo noi. Chi lo salverà, ma soprattutto, chi ci salverà, come già Marco Marchi domanda? ll grillo che Pinocchio trova, tornando nella stanza, rappresenta quasi la coscienza di noi stessi, “burattini” cresciuti, che parla, che ci richiama, ma che alla fine non vogliamo quasi sentire nei suoi ammonimenti e che schiacciamo, spiaccicando la testa all’animaletto contro il muro per farlo tacere. Chi ci salverà dunque? Forse dovremo ancora noi provarci a farlo, ascoltando ognuno la voce interiore del proprio grillo parlante, che nessuno riuscirà a far totalmente, per fortuna, tacere!

Giulia Bagnoli
Se potessi salvare soltanto una poesia salverei questa, intima e tragica, del grande Cesare Pavese: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. La vita non perdona chi tenta di rubarle il mestiere. Cito a memoria le parole di chi l’aveva fatto: rubare il mestiere alla vita.

Teresa Ciardi
Nel IX libro della ‘Poetica’ Aristotele contrappone al genere storiografico, tendente per sua natura al particolare, al kath’èkaston, la poesia e la filosofia, tendenti invece al kathólou, al generale; a differenza della filosofia però la poesia si caratterizza ulteriormente per la presenza di onómata, nomi. Questo è per me il senso ultimo della poetica di Whitman, la compresenza – o meglio, la coessenza – di respiro umano e afflato cosmico; l’immanenza che, tramite la poesia, trascende se stessa nel suo vivificarsi; la ‘vita che si gonfia essa medesima in espressione alla sua reale sorgente’ (D.H. Lawrence); l’equivalenza, anzi l’identità sostanziale tra materia e spirito: ‘e se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe?’.

Greta Fantechi
Nello “Stunden-Buch” la voce poetica del monaco-artista combina mirabilmente i concetti di sviluppo creativo, di religiosità lirico-simbolica (plasmata, forse, anche da influssi tolstoiani) e di “spiritualità Romantica”, aperta ad un colloquio intimo e immediato con la natura. Sebbene il virtuosismo poetico di Rilke oltrepassi i confini del Neoromanticismo tedesco – per approdare, poi, a tematiche e descrizioni più “moderne” -, in alcune parti del “Libro d’ore” sembra raggiungerne vertici straordinari, soprattutto attraverso due aspetti, quali l’esplorazione dell’Io e la riflessione storico-filosofica sul sentimento del Sublime. Trovo molto interessante anche la figura della divinità: il pensiero rilkiano riconosce come proprio Dio un Essere Supremo primordiale non trascendente, ma immanente e panteistico: personalmente, credo che “Du bist die Zukunft, großes Morgenrot” rifletta proprio una sorta di “risveglio spirituale” – un intenso desiderio di interagire con il cuore e la coscienza dell’Universo. Nella poesia sembrano risuonare “echi di Eternità”, come se i versi fossero dettati da un’anima ebbra di Dio; le parole, che si traducono in immagini, e il silenzio che le precede, assumono un’importanza rilevante, essenziale – divengono “ambasciatrici di Verità” nel descrivere anche l’inimmaginabile. Nel suo celebrare misticamente l’interiorità profonda di tutte le cose e la loro intrinseca bellezza, Rilke mi ricorda molto Whitman… Sarà per questo motivo che sono entrambi i poeti che riescono a “toccarmi l’anima” meglio di chiunque altro!

Pietro Paolo Tarasco
L’esser nato in una città di sconvolgente bellezza come Praga, penso che per un grande poeta come Seifer, sia stato una fortunata e straordinaria coincidenza. L’ha decantata come meglio ha potuto; quel grande amore per la città natia, metaforicamente, l’ha commisurata all’amore che si dona alla donna più amata. Solo chi ha avuto la “fortuna” di percorrere le buie e deserte stradine nella magica Praga di alcuni decenni fa, potrà veramente immergersi nella poetica così intima di Seifert. La sua unicità poetica mi ha portato immediatamente alla memoria un suo caro amico, anch’egli praghese, chiamato “Il poeta di Praga”. E’ il fotografo realista e romantico Joseph Sudek. L’hanno amata e decantata con la stessa incommensurabile bellezza, l’uno con sublimi versi e l’altro con straordinarie immagini. Ringrazio il Prof. Marchi per aver pubblicato questi bellissimi versi che mi hanno riportato immediatamente nei ricordi di una città di inebriante e indimenticabile bellezza.

Argante
Spesso leggo le poesie da lei pubblicate, molto belle e dense di significati vitali. Mi fermo, non l’animo del poeta e non posso andare oltre, ma apprezzo chi sa scriverle e la sua tenacia nel proporle quotidianamente in un mondo che come minimo andrebbe preso a calci in…., vede, non sono un poeta!

Marco Capecchi
“I poeti lavorano di notte… quando tace il rumore della folla”. Stupendo e attualissimo verso della Merini. Pieno di saggezza e verità. Questo mondo ha bisogno di poeti e di poesia e di meno folla o pubblico o moltitudine. Questo mondo ha bisogno di riflettere, di notte, “quando il tempo non urge”.

Isola Difederigo
Una grande poesia d’amore, dentro il pensiero dell’amore nello spirito della lingua e della tradizione greca, di una metafisica fatta sensi, suono, colori, parole. Amo la poesia di Elitis, la sua magia, il suo respiro come un’eco di Paradiso: “Nel Paradiso ho disegnato un’isola / A te uguale ed una casa sul mare // Con un grande letto e una piccola porta / Ho gettato un’eco nelle acque profonde / per guardarmi ogni mattina quando mi sveglio // Per vederti a meta passare sull’acqua / E a meta piangerti nel Paradiso”.Elisabetta Biondi Della Sdriscia
Davvero straordinaria la densità di questa lirica montaliana: ogni verso è ricco di significati, denso di allusioni, rimandi letterari, colmo di riprese foniche, rime interne, percorso da un’interna musicalità che l’attraversa dall’inizio alla fine. L’impossibilità di continuare il viaggio, l’impossibilità di dare risposta alla domanda esistenziale, il capovolgimento dei significati dannunziani … e molto altro ancora! Vorrei sottolineare che D’Annunzio in questi versi mi sembra costituire un modello e contrario, ma la sua presenza – e quella dell’alcyonio Meriggio – mi pare vistosamente rintracciabile. Così come mi sembra evidente l’ombra dantesca, non saprei dire se filtrata attraverso D’Annunzio o diretta. Ermione.

Giulia Bagnoli
La quartina in Patrizia Valduga è il simbolo di questo duo erotico dove la donna tiene le fila del discorso poetico. Abbiamo una coppia doppia che giustifica la quartina: un uomo e una donna; il linguaggio e il corpo. Prima dei corpi abbiamo il linguaggio, qui sempre provocatorio, tanto da far apparire il sesso come una grottesca farsa. Ricordiamo l’incipit di Medicamenta: “Sa sedurre la carne la parola, / prepara il gesto, produce destini…”.

geronimo
Non un Grazie ma dieci volte GRAZIE… Legger le poesie assaporando il caffè è divenuto rito quotidiano… Non ci può esser l’uno se non c’è l’altro, e questa mattina, con le poesie d’amore di Alda Merini, è stata una esplosione di sensazioni meravigliose…
Viviamo in un triste momento sociale ed economico del nostro Paese… la poesia fa abbandonare le tristezze umane ed è bello sentirsi abbracciare dal calore delle parole…
E poi nella pienezza dell’amore, si rivive l’amore perduto e dispiace non aver potuto leggerle queste poesie insieme nel rito quotidiano del caffè mattutino…
Fatelo, voi che potete farlo, sarà per voi una giornata doppiamente meravigliosa…

m
«In cima al tetto la banderuola / affumicata gira senza pietà» scriveva Montale nella «Casa dei doganieri»… Che stupendo, disilluso, desertificato omaggio a quello stridere, all’agghiacciante «klirren» del poeta svevo!
Hälfte des Lebens, forse la poesia più famosa della letteratura tedesca, funziona come un cesellatissimo cameo, un
diadema seducente che allude ai grandi temi affrontati diffusamente da Hölderlin (morto nel 1843…) in altre poesie assai più complesse.
Quasi dimenticavo: molti si sono cimentati con la traduzione di questo testo breve ma linguisticamente davvero arduo (Contini, Traverso…). Complimenti per la scelta di Reitani, che secondo me ci offre una versione aggiornatissima, ma soprattutto bella e – specialmente nei primi tre versi – coraggiosamente innovativa. Il risultato apre al lettore italiano orizzonti interpretativi davvero interessanti.

Isola Difederigo
L’esercizio di tradurre da una lingua a un’altra, amplificandone i significati e modificandoli in base alla caratteristica di organismo vivente propria del linguaggio stesso, non e prerogativa esclusiva della traduzione come genere letterario. E’ il processo dinamico che sta alla base del variantismo d’autore (come nel caso di Ungaretti e Palazzeschi), ma anche il codice interno che lega nella fruizione di un’opera testo e lettore, e nella trasposizione scenica attore e personaggio. E’ certo che Omero, nuovamente tradotto e riscritto, non finisce mai di stupirci.

Elisabetta Biondi Della Sdriscia
Il video, bello e interessante, ci testimonia il rovello incessante del traduttore: perennemente insoddisfatto del risultato, conteso tra un’esigenza di fedelta al testo originale e un impulso creativo suo proprio che lo induce ad attualizzare il testo, a interpretarlo, a personalizzarlo, forse, in qualche misura, a tradirlo! Giovanna Bemporad “e” il testo di Omero e con il trascorrere degli anni lo interpreta in modo diverso, in armonia con la propria mutata sensibilita; lo dice a memoria, con correzioni e inciampi, perche in lei si stratificano differenti interpretazioni, soluzioni diverse a seconda delle diverse eta, dei diversi momenti: la sua recitazione non fa, dunque, spettacolo, ma e vita. Giovanna Bemporad ha dedicato una parte importante della propria esistenza e del proprio lavoro al meraviglioso mondo omerico: mi smarrisco a pensare che, nell’ottavo secolo avanti Cristo, un popolo che abitava una “pietrosa” e brulla regione del nostro Mediterraneo, cosi pietrosa e brulla che era stato necessario affrontare l’alto mare per cercare altrove lidi piu ospitali, avesse gia prodotto dei poemi, come quelli omerici, cosi raffinati e complessi, in cui, sotto forma di mito, prendevano vita poetica – e che vita, che poesia! – tutti gli affetti e le emozioni piu importanti dell’anima dell’uomo! Ermione.

Tommaso Meozzi
Caro Catullo, tu che hai sperimentato così profondamente la vita nelle sue contraddizioni, sei rimasto, nell’eterno.

mTo C. from M.
Cesare, scusa se gioco con un titolo tuo, la tentazione è stata troppo forte… Ormai è molto che te ne sei andato, tante cose sono accadute, tante parole sono state scritte. Eppure tu rimani uno dei piu grandi, anche se forse non tutti se ne sono accorti, magari perché non sei di loro di gusto (non ti preoccupare, succede anche ai migliori), magari perché ti amano o ti odiano dalle sponde sicure ma anguste di qualche isoletta teorico-ideologica… e tu invece hai volato alto, fin dove a un certo punto ci si brucia. Ma credimi: anche solo leggerti è giocare col fuoco.

Pecchio
Una poesia, questa di Pavese, che ha accompagnato la vita di molti. Letta nei banchi di scuola: amata per l’intensità, la sofferenza, la consapevolezza.

Argante
Spesso leggo le poesie da lei pubblicate, molto belle e dense di significati vitali. Mi fermo, non l’animo del poeta e non posso andare oltre, ma apprezzo chi sa scriverle e la sua tenacia nel proporle quotidianamente in un mondo che come minimo andrebbe preso a calci in…, vede, non sono un poeta.

framo
Alle spalle di un Orfeo che ha dismesso il canto lieve per approdare al lamento, ben oltre la scissione dei sensi, ben oltre il desiderio di possedere e di essere posseduti, l’Euridice di Rilke non ascolta la nostra lingua – non ha bisogno di comprenderla -, non identifica chi l’ama. Ormai “sciolta” dai legami con l’umano e al contempo “radice” intorno a cui sgorga “il sangue che affluisce agli uomini”, appare per rendersi invisibile, come un soffio, un mormorio segreto, magica presenza tutta “raccolta in sé”. Assorbita dalla pienezza del proprio essere si dà e si ritrae, termine sfuggente e origine senza ritorno di ogni vita e di ogni attuale, futuro canto. Grazie per questo incanto.

m
Rilke è proprio un poeta dei contatti: sembra, come il suo “maestro” Rodin, uno scultore di sensazioni che trasforma ogni pensiero in materia plastica, ogni fantasia in tangibile colore.
O meglio assenza di colore, come in questi scenari devitalizzati, in cui Euridice ormai appartiene all’Averno: ha perso il rosso del sangue e il calore della corporeità. Come accade per il frutto caduto al suolo, la sua fertilità si è trasfigurata in un’altra dimensione fisica, non più a Orfeo appartiene ormai, ma alla terra: “è già radice”.

tristan51
Capolavoro assoluto (come spesso in Rilke accade).

Daniela Del Monaco
Per Virgilio Orfeo si sarebbe voltato perché colto dall’improvviso e travolgente desiderio di vedere la sua Euridice, ma la lettura novecentesca fatta da Cesare Pavese sostiene che Orfeo si sia voltato di proposito perché il cantore non era sceso agli inferi con lo scopo di riavere al sua metà, ma solo perché “voleva ritrovare se stesso”. Anche Roberto Vecchioni nella sua canzone dal titolo “Euridice” accetta la lezione pavesiana. Anche il suo Orfeo, infatti, si volta volutamente per evitare che la sua amata debba provare di nuovo il dolore della morte che ha da poco subito: “Ma non avrò più la forza di portarla là fuori (…) mi volterò perché l’ho visto il gelo che le ha preso la vita, e io, io adesso, nessun altro, dico che è finita”.

Erika Olandese Volante
Il gesto atavico e mitico di Orfeo che si volta gettando irrimediabilmente lo sguardo sul mistero del Nulla, della dimensione “altra” del non essere, del non esistere, forse sta alle spalle di questa immagine montaliana, celebre ma mai abbastanza letta, mai abbastanza goduta. Un’immagine che forse trova il suo epigono in certi film contemporanei, frutto di un’epoca di consumismo e globalizzazione del gusto, ma aventi il pregio di mostrare l’interesse mai sopito dell’uomo verso le profondità insondabili della realtà, sempre oscuramente percepite al di là delle chimere della rappresentazione… Come in una celebre immagine alchemica, il saggio dà uno sguardo “oltre”, fuori da ogni illusoria ma rassicurante “Matrix”.

m
Non si insisterà mai abbastanza su Pasolini poeta: poeta vero, tra i massimi del Novecento; e poeta sempre, lungo tutto l’arco della sua vita disperatamente vitale.
Queste vertiginose terzine lo testimoniano, se il lettore le vorrà leggere astraendo dai filtri massmediatici di quella notorietà acclamata che lo banalizza fino, talvolta, ad offenderlo. Che tragica contraddizione: il grande successo che ha riscosso non gli rende il merito che gli sarebbe dovuto… Del resto lui stesso, nella sua oscurità raggiante – dolorosamente luminosa – aveva già capito tutto, prima di tutti: “ma a che serva la luce?”.

tristan51
Qui, come neila “Rabbia,” nessun dolce pianto, nessuna nostalgia, nessuna fuga nel passato o nel sogno: il poeta è solo con il suo “vuoto” ed il suo “arido furore”. Il contrasto tra il richiamo dell’”esistenza intera” e la dura attualità vissuta trova nei versi leopardiani del “Glicine” la sua celebrazione e il suo suggello.

Francesco Spinelli
COMUNICATO ALL’ANSA (PROPOSITI)
Come dice Euripide: “La democrazia consiste
in queste semplici parole.
Chi ha qualche utile consiglio da dare alla sua patria?”
Così i mie consigli saranno di folle moderato.
Dopo la mia morte, perciò, non si sentirà la mia mancanza:
l’ambiguità importa fin che è vivo l’Ambiguo.
Pier Paolo Pasolini (oggi compirebbe 92 anni)
“Trasumanar e organizzar” – Garzanti 1971 – pag. 65

Giacomo Trinci
Vorrei, in parte, rovesciare la formula di Giovanni Raboni a proposito del rapporto con la poesia di Pier Paolo Pasolini: più vado avanti nel conoscere la sua opera, più mi appare chiaro, evidente, il fatto solo apparentemente paradossale che, per quanto riguarda la sua attività estetica, lo identifica appieno come un essere “abitato” dalla lingua della poesia, dal suo sguardo “troppo difficile e troppo facile”. Eppure, proprio questo essere preda della sua traccia, lo spingeva fuori di sé a cercarne le impossibili ragioni, a farne, si direbbe, inchiesta e a trovarne le forme nella sua molteplice attività di sperimentatore. La qualità del suo alto manierismo è tutta qui: ricercare l’autentico a partire da sé. Ricercare in modo vero la forma che già si possiede; si potrebbe dire che il suo manierismo, forse come tutto il grande manierismo, è “a rovescio”: si cerca veramente solo quello che già si è trovato; dall’inizio, con le poesie degli “alba pratalia”.

Isola Difederigo
C’è tutto Pasolini in questi versi, o quasi tutto. C’è il Pasolini mitografo di se stesso, le sue cristologiche ostensioni di corpi giovani per lo scandalo della diversita; c’e la sua ossessione espressiva, la vocazione alla “predicazione” in forma di poesia in cui si addensa e si scioglie l’originaria e mai dismessa tentazione del sacro; c’è il genio manierista o forse meglio barocco dell’allievo di Longhi destinato a incendiare le sue folgorazioni filmiche. Il poeta civile di poco successivo a questi versi, dopo la fuga a Roma “come in un romanzo”, nasce per espansione in chiave socio-ideologica e antropologica di orizzonti culturali e psicologici intravisti e messi a fuoco nei giovanili anni friulani. Non c’è ancora qui la “profezia”, quel sentimento di tragica ineluttabilita della propria morte che trova nell’imminente incontro con il cinema la sua piena formalizzazione. Come in un film – come in una delle scene iniziali del suo primo film, “Accattone”, come in una sequenza del progettato film su S. Paolo – il Pasolini che dopo il “Vangelo” torna a parlare di se meditando sulla caduta dell’apostolo (“sono caduto da sempre, e un mio piede e rimasto impigliato nella staffa, cosi che la mia corsa non e una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre”), e ormai pronto a scendere dalla croce su cui era esposto il suo Cristo giovinetto, e a lasciarsi trasfigurare.

Rosario
I poeti riescono a catturare e distillare quel non so che di magico che esiste già nel creato, forse nella memoria universale, di cui tutti avvertiamo l’esistenza, ma che difficilmente riusciamo a cogliere, a decodificare. Alla stregua di una risorsa già esistente, che soltanto loro sono in grado di portare alla luce, ma che una volta condivisa, ognuno misteriosamente avverte come propria, rimpiangendo quasi di non esserne stato personalmente artefice e non averla fatta nascere dal profondo del proprio spirito, magari con la complicità delle tenebre silenziose della notte…

Alessio Bandini
“La letteratura come tutta l’arte è la confessione che la vita non basta”. FERNANDO PESSOA

Elisabetta Biondi Della Sdriscia
Un canto di infinito amore per la vita, questo di Maria Luisa Spaziani, di cui si percepisce poco alla volta, ad ogni rilettura, la profondità e la musicalità create attraverso ripetute allitterazioni e immagini che ci sorprendono, come la metafora che assimila il tempo ad un’albicocca matura e poi alla creta modellata dallo scultore: “mordo il tempo/questa albicocca matura”, versi che creano un’immagine intensamente colorata e al tempo stesso non priva di sensualità, con quel mordere avido di cui sentiamo quasi il tintinnio nell’allitterazione delle dentali sonora e sorda, mentre la nasale si prolunga nel matura del verso successivo. “Sciuperei sottoterra/ troppo tempo prezioso”: il gioco delle ripetizioni di suoni anticipa lo scalpitare di quei cavalli che galoppano nelle infinite praterie che la vita ci presenta. Ermione.

Erino
Mi piace Alda Merini. Ho fatto un dipinto su “albatros” e tutte le volte che lo guardo mi sento quasi felice.

Greta Fantechi
“Whoever hath her wish, thou hast thy Will” rappresenta, per me, un rebus traboccante d’erotismo all’interno dell’inafferrabile enigma shakespeariano. Trovo estremamente intrigante il “quadro sentimentale” in cui sono coinvolti la Donna ed il personaggio dell’Io narrante, che descrive, in modo forse poco lunsinghiero, lo scabroso, disinvolto rapporto della Dark Lady con la propria sessualità. Da tale approccio emerge una pregiudizievole relazione uomo-donna, in cui vige una sorta di sottomissione o schiavitù sessuale esercitata dalla figura femminile, che sembra quasi rimandare al mito omerico di Circe e Odisseo. Ritengo, però, che l’esegesi del Sonetto CXXXV non possa prescindere dal testo in lingua originale: il componimento poetico ruota attorno alla parola-chiave “will”, cui la critica letteraria ha attribuito molteplici possibilità interpretative: il significato primario di “intento/deliberato proposito” e la condizione di verbo ausiliare, vengono surclassati, infatti, da altrettante accezioni, che denotano sia i concetti di lussuria e caparbietà, sia, propriamente, l’organo genitale maschile e/o femminile; (designando, inoltre, il soprannome di Guglielmo, “Will” sembra tradire la tanto discussa ambiguità sessuale di Shakespeare: il fatto che il destinatario “misogino” dei Sonetti fosse stato indicato soltanto con le iniziali W.H., indica, infatti, come un’esplicita attribuzione identificativa del dedicatario avrebbe costituito per l’editore un elemento alquanto insidioso e scottante). L’asserzione “her will is large and spacious” e l’immagine iperbolica della morte dei “fair beseechers killed by a refusal” contribuiscono, a mio parere, a rafforzare il contenuto “emblematicamente erotico” del Sonetto, rimandando, con il loro duplice significato, alla conclusione di atti amorosi. Interessanti anche le velate allusioni al Cristianesimo e all’episodio biblico del giardino dei Getsemani (“…to hide my will in thine”), attraverso il quale l’Io narrante eleva l’adultera al “ruolo poetico” di Dea e celebra il Poeta come un Cristo, mettendo in luce la connessione – ancora una volta enigmatica -, tra i misteri dell’amore e della religione.

Marino Marchello
Nel giugno 1904, a Napoli, Rilke rivede il bassorilievo al quale, con la magia di questo canto, egli aveva dato vita, qualche mese prima, a Roma. Più tardi, lungo il poetico peregrinare da Praga a Muzot, Rilke scoprirà, quasi con sorpresa, che Orfeo ed Euridice, nel loro divergente cammino, sono scesi in lui per ricongiungersi infine. Per questo, nel 1922, inizierà una pagina nuova, i Sonetti a Orfeo; la apre cantando Orfeo, con il primo sonetto, Euridice, con il secondo e se stesso con ambedue. La chiuderà con due terzine:
Sii magica forza al crocevia
dei tuoi sensi, nella notte crassa,
segno di un convergere imprevisto.
Se il mondo presente, ecco, t’oblia,
alla terra, immota, annuncia: “Io passo”,
al dileguar d’acque di’: “Io esisto”.
Rilke conobbe sia l’opera della vista che l’opera del cuore, un percorso che, varcando l’occhio della pantera prigioniera a Parigi, scende nelle profondità feconde dell’essere, per proromperne un domani fuori come un volo di farfalle dai meditabondi sarcofagi di Arles.Oggi siamo noi a incontrare Rilke, il poeta del commiato e del ritorno. Se Orfeo ora è il labbro, Euridice è l’orecchio: colloquio ininterrotto fra la bocca e la vasca di una fontana romana nel cui musicale fluire si acquieta ogni iniziale sgomento.

Teresa Ciardi
Soltanto gli occhi “inondati dal colore del mare” (“Itaca”) di un poeta come Brodskij sono in grado di vedere che l’autenticità poetica e storica insieme – del mito può essere ritrovata ormai solo nel suo rovesciamento.

Occhi di Gatto
Il pianto che non si vede è ancora più degno di rispetto di quello esibito… Dolore così tragico e cocente da esserne gelosi, come l’oggetto che ha provocato tanto dolore. Meravigliosa questa poesia di Ungaretti. Come la capisco, come la sento vera, ora , pensando a qualcosa che mi ha fatto male…

Marco Capecchi
Ulisse:”Senza me dai tormenti di Edipo tu sei libero”.
Telemaco: per questo padre ti cerco. Perche sla tua assenza non mi ha fatto conoscere i “tormenti di Edipo” , ma proprio per questo, forse e possibile sperare in nuovi rapporti e nuove relazioni. Con meno ferite e l’animo leggero. Torna dunque per proseguire il cammino assieme e uguali.

Aretusa Obliviosa
Tozzi più moderno, in quel suo non spiegare, di tanti nostri contemporanei. Colpa anche di omologati editori-imprenditori che ormai accettano di pubblicare solo “plot”, testi che sembrano già sceneggiature preconfezionate.Tozzi controcorrente, che si disinteressa alle trame preferendogli di gran lunga – modernamente, appunto – i solo in apparenza innocui e ben più destabilizzanti “misteriosi atti nostri”. Concordo con m. e mi sorprendo una volta ancora dinanzi alla nuda bellezza di questo incipit: personalmente sono sempre rimasta colpita dall’urgenza che Tozzi con una semplice reiterata domanda (“Non mi riconosci?”) riesce ad esprimere. Domanda che diviene una supplica, un disperato grido. In queste tre parole di Remigio sta il dramma e l’intima motivazione di un’intera opera: il bisogno di essere riconosciuto figlio, per poter definitivamente lavare dalla propria anima la cecità di un padre che perfino in punto di morte “pareva […] non lo vedesse nemmeno”. Il desiderio di un “incalco”, di una pacificazione, che Tozzi mediante la scrittura riuscirà a raggiungere un attimo prima che si concluda il suo breve cammino.

Erika Olandese Volante
Questi versi sono come un’epigrafe, da scolpire nel cuore e da portare sempre con sé. Da quando li conosco ci ripenso spesso, mi danno forza, coraggio. Fiducia in una vita che passa dall’ordine al caos, e poi di nuovo all’ordine, divina, incomprensibile. Considero Erri De Luca un padre e un esempio per chi, come me, lotta per interpretare una contemporaneità in continuo cambiamento, sapendo che il Senso c’è, ma va compreso.

Silvia
Morto il padre, nel Tozzi del “Podere”, il figlio deve subire lo scontro col mondo di lui, fino a restarne vittima. E’ il racconto straziante di una vicenda in cui protagonista è il male.

framo
In questo testo sublime di Celan, a mio parere viene posta in essere tutta la carica di eversione e di promessa insita nella parola poetica, la sola in cui il detto e il taciuto si compenetrano in un rapporto vivo che oltrepassa l’acquisito e lo scontato; la sola in cui è l’indistinto, l’oscuro, il sotterraneo a dare senso e pienezza al noto e al definito. Ogni volta che si dà poesia viene a prendere corpo e forma di nuovo l’ipotesi di un varco possibile per viaggi senza meta, per vie inesplorate o dimenticate, dove anche la stella può rendersi mobile e, precipitando nella sua sembianza, tornare a circolare liberamente, oltre il nostro orizzonte ristretto, non come specchio, ma come entità completa, perduta e ritrovata, come parola-astro che sa attraversare, interrogandole, le miriadi di luci e di ombre che in noi convivono e che ci fanno sentire, capire ed essere. Grazie.

Guest
Palma d’oro della lettura d’autore ad Ungaretti (ma anche d’oro della scrittura, del testo in sé: che poeta!)

Damiano Malabaila
C’è un solo Dio e il suo nome è Ungaretti.

Aretusa Obliviosa
Un paese in miniatura, come un microscopico presepe, o piuttosto l’elemento esornativo di un carillon. Per la verità sembra quasi di udirne la musichetta, a sottolinearne l’atmosfera cristallina e ovattata. Un mondo diverso – come diverso si sente il giovane Palazzeschi -, privo di presenze umane, come se la dimensione favolistica fosse la sola attraverso cui potersi, in questo momento, esprimere. Paradossalmente l’unica creatura vera e vivente, anzi pulsante, su questo incantato paesino di cristallo è la vistosa stella, pronta a flirtare, con il suo occhieggiare con la punta del compunto e impassibile cipresso. Già qui, in questo precoce 1909, Palazzeschi si rivela autore da scoprire fra i versi e le righe della sua scrittura, fra detto e non detto, fra confessabile e inconfessabile. Ed è con questo spirito che andrebbe riletto – come Marchi ci insegna – anche un piccolo gioiello ben più tardo come le “Materassi”, molto meno innocuo e borghese di quanto a prima vista possa sembrare.

geronimo
Buon Natale a Lei che con le poesie che quotidianamente propone ha la facoltà di aprire mente e cuore… Che il suo sia un Natale Splendido… Grazie.

Nell’illustrazione. P. P. Tarasco, Il Pellegrino, acquarello, 2000

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