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Firenze, 5 febbraio 2015 – L’amore è il nucleo incandescente attorno al quale ruota tutta la produzione poetica di Alda Merini. Alla frequentazione del top dei sentimenti la Merini ha legato la praticabilità stessa della vita, sicura che la presenza e l’assenza dell’amore costituissero, più che segnali luminosi e oscuri di una capacità sensibile di emozionarsi ed esprimere, la mappa delle effettive possibilità esistenziali di fuoriuscita dalla solitudine che grava sull’«io» e sulle sorti del mondo.

Così una delle maggiori voci del Novecento italiano, riconoscendo il suo «Dio di amore» e proprio a lui rivolgendosi, può dire, in una sorta di puntuale ed esatto riepilogo di una vicenda infinita: «Io ho scritto per te ardue sentenze, / ho scritto per te tutto il mio declino; / ora mi anniento, e niente può salvare / la mia voce devota; solo un canto / può trasparirmi adesso dalla pelle / ed è un canto d’amore che matura / questa mia eternità senza confini».

Marco Marchi

Una volta ti dissi

Una volta ti dissi:
non arrabbiarti, amore,
s’io sono diversa.
Forse sono una colonna di fumo,
ma la legna che sotto di me arde
è la legna dorata dei boschi,
e tu non hai voluto ascoltarmi.
Guardavi la mia pelle candida
con l’incredulità di un sacerdote,
e volevi affondarvi il coltello
e così la tua vittima è morta
sotto il peso della tua stoltezza,
o malaccorto amore.

Prendevo in giro l’ebrietà della forma
e sapevo che ero di lutto,
eppure il lutto mi doleva dentro
con la dolcezza di uno sparviero.
Quante volte fui scoperta e mangiata,
quante volte servii di pasto agli empi;
e anche tu adesso sei empio,
o mio corollario di amore.
Dov’è la tua religione
per la mia povera croce?

Alda Merini

(da Vuoto d’amore, Einaudi 1996)

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