VEDI I VIDEO La vita e le opere: “Tozzi, la scrittura crudele” , L’inizio del romanzo “Il podere” , Scene da “Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi (1994) , Passeggiata tozziana

Firenze, 10 marzo 2015 – Sono da poco apparsi per i tipi della casa editrice fiorentina Le Lettere due titoli tozziani: un’antologia di novelle e un libro di saggi, Venti novelle e Federigo Tozzi. Ipotesi e documenti. Di ambedue le pubblicazioni sono responsabile, rispettivamente in veste di curatore e come autore, e mi piace festeggiare con i lettori di queste «Notizie di poesia» la circostanza.

Federigo Tozzi è, com’è noto, uno dei massimi scrittori italiani del primo Novecento e del Novecento tout court. Narratore senese morto giovane all’età di soli trentasette anni, ha lasciato una serie di opere che bastano a consacrarlo pienamente nella sua grandezza. Secondo le più aggiornate e accreditate prospettazioni critiche, la novella costituisce poi il genere letterario privilegiato attraverso il quale l’autore è riuscito ad esprimere gli esiti più alti della sua arte: la novellistica di Tozzi, per dirla con Luigi Baldacci, come la «punta di diamante» di un’opera che nel suo complesso teme pochi confronti nella produzione narrativa di un secolo.

La scelta antologica delle Venti novelle, di cui proponiamo qui sotto uno splendido campione, La prima fidanzata, intende offrire una sintesi delle possibilità che la moderna poetica tozziana dei «misteriosi atti nostri», coniugata ad un genere per Tozzi elettivo, ha saputo raggiungere: novelle asentimentali, spregiudicate e impietose fino alla crudeltà, siglate da un realismo modernamente in ascolto delle istanze del «profondo», la cui bellezza e la cui formidabile capacità di scavo nell’animo umano rendono attuali e di valore universale i personaggi e gli eventi inscenati dalla scrittura di Tozzi. De La prima fidanzata si apprezzi, ad esempio, l’intrattenimento nei territori della sesualità infantile e, insieme (si legga attentamente il finale) la capacità scrittoria a sfondo sinestetico di registrare le sensazioni provate dal dodicenne protagonista.

Ha dichiarato una volta Mario Luzi: «Per me Tozzi è un grande scrittore. Non ce ne sono come lui, neanche Svevo, che è molto intellettuale, anche perché proviene da quel crocevia di culture che è Trieste. Tozzi, invece, viene dal fondo della senesità: viene dall’ambiente, dalla realtà, dalla “zolla” senese. […] Ma quando uno lo legge e c’entra dentro se ne innamora. […] Magari in alcuni scritti può apparire oggettivamente angusto, però dentro i suoi libri c’è tutto. E quando entri dentro viene fuori tutto il senso e, direi, il non senso delle nostre vicende umane, delle nostre passioni».

Il volume Federigo Tozzi. Ipotesi e documenti raccoglie invece i miei saggi più antichi sull’opera del narratore senese: studi all’epoca della loro realizzazione pionieristici, frutto di una convinta attenzione rivolta a un autore subito valutato di primissimo piano, che credo abbiano contribuito alla riscoperta in chiave moderna di Tozzi e a una sua attendibile definizione.

L’elemento unificante di questa interpretazione – interpretazione deliberatamente restituita in progress, còlta e seguita nel suo farsi, tra «ipotesi» criticamente avanzate e «documenti» che quelle ipotesi sostengono ed autorizzano – è costituito dalla insospettata e invece enucleata, verificata e valorizzata presenza nell’officina di Tozzi della cultura: un Tozzi «scrittore di cultura», appunto, non etichettabile (ed in sostanza emarginabile) come scrittore «geniale» o «di razza», ma al contrario, alla prova dei fatti, da ascrivere a pieno titolo a quel fervido quadro storiografico primonovecentesco di cui è stato parte consapevole.

E’ in tale prospettiva e non in altre che lo stupefacente dono della scrittura di Tozzi si realizza e compiutamente si rivela, facendo di lui una figura di alto profilo della letteratura italiana del primo Novecento e del Novecento tout court: una figura da porre con sicurezza al fianco di narratori di respiro europeo come Italo Svevo e Luigi Pirandello.

Marco Marchi

La prima fidanzata

No, io non volevo domandare perché la signorina Marietta non veniva più a farci visita da tanti mesi. Tra me e lei, ormai, finito tutto! La sua mamma, da bambina e anche da ragazza, era stata molto amica della mia, quasi una sorella; e ora, vecchia e con una figlia sopra i vent’anni, le voleva sempre bene. E per questo motivo, due o tre volte l’anno, la signorina Marietta arrivava a casa nostra, con la diligenza del paese, da Buonconvento. Ci stava una settimana e poi ripartiva. Io non so che ci venisse a fare; ma, certo, non per spasso.
Usciva accompagnata dalla mamma mia; e qualche volta tornavano con tante boccette incartate. Venivano, certo dalla farmacia, perché mi raccomandavano subito di lasciarle stare; e io dovevo contentarmi di toccare i nastrini tricolori legati ai tappi di sughero, che odoravano di medicine.
Prima che la giovine arrivasse, la mamma mia riceveva una lettera dalla sua; e allora, insieme con la serva, preparavano un letto dove non dormiva mai nessuno. Su quel letto, me ne ricordo sempre, ci tenevano invece gli scaldaletti uno sopra l’altro e alcuni coltroni arrotolati con una cordicella così tirata forte che sotto non mi riusciva mai a ficcarci né meno il mignolo. Sorridendosi per la fatica che dovevano fare, in mezzora cambiavano tutto. Ci mettevano un lavamani, anche quello non mai adoperato da nessuno, una salvietta e una saponetta comprata a posta.
 Prima di richiudere l’uscio, davano un’occhiata insieme e dicevano:
– Pare che non manchi niente!
Quando la signorina Marietta arrivava, la diligenza s’era fermata all’uscio di casa, aveva sempre le guancie troppo incipria te; e perché era partita la mattina a levata di sole, aveva uno scialletto di lana, arancione, intorno al collo. La mamma scendeva a mezze scale; e si baciavano. Io, dietro la mamma, facevo di tutto per non esser baciato.
Poi parlavano quasi sottovoce, rapidamente; e quando la signorina Marietta riesciva di camera mi pareva quasi un’altra. Mi pareva che respirassero anche i suoi occhi castagni; che, certo erano ancor umidi dell’aria del viaggio. Era magra e alta; con le guancie così rosse come quando ci batte il sole la sera. Piuttosto che parlare, rideva; e il suo riso pareva un tremito.

Dopo stringeva le mani insieme, una palma sopra l’altra, così insieme che erano strette come una mano sola. E allora, se era seduta, mi divertivo a tirarle ad uno per volta tutte le dita. Poi le sfilavo un anello d’oro, che pareva troppo largo per lei, e me lo mettevo io; ma per me era largo anche di più. E, allora, perché non mi cadesse, la giovine se lo faceva ridare, accarezzandomi. Io, a poco a poco, mi avvicinavo alla sua bocca; come se ci fossi attratto. Ed ella mi abbracciava, baciandomi i capelli. Io a pena potevo respirare col viso sul suo collo e su l’orlo della camicetta; quasi mi spaventavo perché mi pareva subito di trovarmial buio non so dove, per sempre; e mi divincolavo con poco garbo. Sì che la mamma, se c’era, mi diceva quasi sempre:
– Perché le hai fatto male?
– Io?
La giovine rispondeva:
– Oh, non è niente. L’avevo sopra le ginocchia.
Infatti avevo sentito che le sue gambe, quasi tremando, s’erano sforzate di reggere il mio peso senza scostarsi. Ella non mi sorrideva più̀; e io, allora, le avrei fatto volentieri qualche dispetto; e sentivo che in casa mia non ce l’avrei voluta.
– Ora, che hai? Perché sei diventato bianco?
– Lo so io.
– Ed io non devo saperlo?  – Mi chiedeva la giovine; ma sorridendo alla mamma.
– No; ho piacere che non lo sappia.
– Dunque, non mi vuoi bene?
Io la guardavo e mi veniva un’altra volta la voglia di saltarle su le ginocchia; ma, se non era lei stessa ad invitarmi, mi vergognavo troppo e soffrivo; dispiacendomi di non amarla più, riuscendomi impossibile d’avere amicizia per lei.
Ella, per lo più, mentre la mamma accomodava i vestiti nell’armadio o riaggomitolava le lane per un tappeto a colori che voleva fare per il salotto, stava seduta, accomodandosi i due lunghissimi riccioli su le tempie un po’ larghe, me ne ricordo sempre, e anche come incavate.
– Insomma non mi vorresti bene?
Questa domanda mi faceva così dispiacere che quasi mi veniva da piangere.
Un giorno, chiesi:
– Ma perché dovrei voler bene anche a lei?
Tanto la giovine che la mamma scoppiarono in una risata.
Io andai verso la signorina Marietta e le detti un pugno su le ginocchia, naturalmente senza farle male.
E pure mi faceva rabbia perché non potevo guardarla a lungo senza sentire uno smarrimento che mi bruciava dentro la testa!
 Qualche volta, sul canapè, aspettando la cena, ruzzavamo così di cuore come se fossimo stati della medesima età. Io mi divertivo a leccarle le dita; ed ella, ridendo, se le asciugava alla sottana. Quando, senza avvedermene e senza malizia, m’avvicinavo al suo petto, ella mi respingeva non badando né meno se mi facesse male, con la mano aperta su la mia fronte e su gli occhi. E io, allora, prendevo la rincorsa e volevo batter la testa contro di lei.
L’ultima volta che venne, non mi riuscì mai a farla sorridere. Pareva che volesse più bene alla mamma; ma non ci capii niente. Beveva soltanto grandi tazze di brodo, che parevano arroventate; con qualche fettina di pane abbrustolito. E io la guardavo mangiare, perché la sua bocca era così triste come se le avessero ficcato gli aghi nella carne. Mi faceva proprio quest’effetto. E, allora, sospiravo. Ma pareva che la mia melanconia le facesse male, e, invece di guardar me, teneva gli occhi alle oleografie delle pareti.
Capii, a pena giunta, ch’era impaziente d’andar dal medico.

«Dunque, c’è andata anche le altre volte!» pensai. E che poteva avere?
Quando tornò, disse:
– Non mi moverò più dal paese. È inutile.
E m’illusi che ne fosse contenta. Certo, la sua rassegnazione era così dolce che le doveva parere di sognare soltanto.
– Perché dici così? – Rispose mia madre.

– I medici non ci capiscono niente. Lo so bene.
E sospirò con una convinzione così profonda che ne provai un senso di rispetto. E queste sue parole mi hanno fatto sempre riflettere.
Io pensai «Se dice così, vuol dire che ha ragione!» 
E poi disse, allegramente:

– Quando sarò morta, verrà a vedere dove sono?
La mamma impallidì abbassando gli occhi. La giovine le strinse le mani; poi, pigliandomi il viso, proseguì:
– Tu avrai i baffi. Come mi piaceva!
Aveva portato una dozzina di rondini di cartone, turchine e bianche, fatte da lei; e la mamma le mise subito, con gli spilli, alla tenda del salotto. Oh, no! Quelle rondini non volavano!
Contro luce, dal canapè, mi parevano nere; e non so perché dissi alla mamma che le togliesse e le chiudesse in un cassetto.
– Perché? Come sei cattivo! Le ha fatte Marietta per me.
E s’inquietò.
– Che m’importa?

– Sono mie, e non metter bocca in queste cose.
Io non osai guardare la giovine; che si abbassò per chiedermi:
– Perché non le vuoi?
– Perché le hai portate?
Ella rimase a bocca aperta. Io, contento, guardai la mamma.
Quando s’inquietava non sapeva più quel che facesse. Pigliava la paletta invece della sventola, si faceva male alle mani. Le si vedevano le vene della fronte, flosce ed azzurre; gli occhi, neri, lampeggiavano, e impallidiva.
Mio padre, ingegnere comunale, era morto quando io avevo soltanto due anni; ed ora ne avevo dodici. Per fortuna, la mia mamma, la signora Sergia, aveva avuto una piccola dote!
La giovine mi disse, non per rimproverarmi ma perché le faceva piacere dirmelo:
– Te le ho portate per fare un regalo.
– Non ci discutere: ai ragazzi non si danno spiegazioni.

Ma ella proseguì:
– E perché me l’ha detto la mamma mia!
Quella era una vecchietta, un poco gobba, con un viso che pareva una forbice aperta, tanto il naso e il mento erano lunghi e aguzzi.

– Non le voglio.
Mia madre mi dette uno schiaffo e mi mandò a studiare, in camera; ma la signorina Marietta ne rimase così turbata che non le riuscì mai a dissimularlo. Quando tornò via pareva trafitta. Mi ringraziò che io la salutassi! Non dimenticherò mai la sua umiliazione e quell’ebbrezza perversa che provai io. Pensai: «Di certo, la diligenza darà balta!».

*

Pochi mesi dopo, ma il tempo non mi riusciva mai a calcolarlo, a primavera, mi pare, vidi mia madre leggere una lettera. La teneva tirata con ambedue le mani, tutta aperta. Ad un tratto i suoi occhi si riempirono di lacrime; e, perché qualcuna cadde su la lettera, come un colpo secco, la ripiegò in fretta e se la mise in seno. E, senza dirmi niente, andò a finir le faccende in cucina. Io, spiando dall’uscio mezzo aperto, senza che se n’avvedesse, la vedevo pianger sempre; e le lacrime cadevano sul tavolo, su i piatti, sul granatino. Quando tornò la serva dalla spesa (aprii l’uscio io) parlarono concitate, e poi la serva esclamò forte:
– Di già? 
Ma, voltatasi verso me, si turò la bocca.
La mamma mi mandò a spasso; e seppi, poi, per poter scrivere più in pace una lettera, per la quale ci mise non meno di quattro ore: un’ora per pagina. E, se la diligenza non fosse ripartita tanto presto, avrebbe voluto scrivere in un altro modo: lo disse alla serva.
Offeso che non mi volessero far sapere niente, stetti zitto. Ma, in seguito divenni curioso di assicurarmi se la signorina Marietta era morta da vero, come mi pareva di capire tutte le volte che spolveravano le tende e le rondini di cartone; perché sentivo dire:
– Poveretta!
 Oppure:
– Che dispiacere la sua mamma!
 Chiedere, no, non lo volevo chiedere; e, poi, avevo paura che non fosse vero e di ritrovare in casa la signorina Marietta. Ma perché ci veniva? Che m’importava della sua mamma, di quella vecchia così ghiaccia che quando m’aveva baciato ero restato male?
Verso l’inverno, mi ricordo che l’autunno era stato lunghissimo e aveva tuonato notte e giorno, la mamma andò a cavare dall’armadio le camiciole di lana e i vestiti gravi, ricoperti di pepe e di naftalina. Ci si vedeva a pena, perché pioveva.
Sotto le sue calze di lana, vidi una scatola rotonda, legata con un nastrino di seta. Ella non fece a tempo a nasconderla più sotto, e io chiesi:
– Ci sono i confetti?
Ella mi guardò, e mi disse:
– Son della povera Marietta! Lasciali stare. Tu non le volevi bene, ricordatelo: li portò l’ultima volta che venne da noi.
Le rondini erano sempre appuntate sopra la tenda; nere e un poco sciupate.
– Fammene assaggiare uno solo.
Ella impallidì. Io le chiesi:
– Ho detto qualcosa di male?
E rividi le tre vene della sua fronte fin sopra il naso: ormai eran già comparse!
Ella mi guardava muta, con gli occhi quasi spauriti.
– Perché sei cattivo?
– Non è vero.
E mi venne da piangere. Allora, il suo viso divenne più tranquillo, e le tre vene, come un nodo arruffato, sparirono.
Richiesi:

– Dammene uno!
Ella prese la scatola, tenendo lontane le mie mani. Sciolse il nastrino piano piano e lo stese su la biancheria. Poi, tenendola pari, aprì il coperchio che dalla parte di dentro era celeste. Mi chiese, quasi supplicando, con la sua voce così buona che ancora non ne ho sentita un’altra eguale:
– Perché lo vuoi?
– Mi piace.

– Prima, inginocchiati sul canapè e di’ un’Avemaria per la povera Marietta.
La mia ghiottoneria mi fece obbedire subito.
– Eccoti il più piccolo!
Mi dette il più piccolo perché la scatola paresse sempre piena. Pianse, richiuse la scatola, e non so dove la mettesse: io non l’ho mai trovata.

Andai alla finestra, e misi in bocca il confetto; succhiandolo e strusciandolo tra la lingua e il palato. Mi pareva che la pioggia m’aiutasse a mangiarlo. Non sapeva di niente, anzi era cattivo; forse perché era stato lì dentro tanto tempo. Ma fu il mio saluto alla signorina Marietta.
Non avevo pietà per il caldo provato quando le sue mani affilate mi toccavano; non desiderio di lei. Ma ero certo di non rivederla più; e io solo potevo sorridere ancora! Lei no!
La mia prima fidanzata se la portò via per sempre la pioggia; ed io finivo il suo confetto perché ero contento.

Federigo Tozzi

(da Venti novelle, Le Lettere 2015)

Seguici anche sulla Pagina Facebook del Premio Letterario Castelfiorentino

ARCHIVIO POST PRECEDENTI

Mario Luzi. I ragazzi, la poesia , Errando senza amore. Dino Campana , Roma capitale secondo Pasolini , Il divorzio secondo Wisława Szymborska , Anniversario Alessandro Manzoni 1785-2015 , 8 Marzo con Sibilla Aleramo , Nostra Signora delle cose impossibili. L’ode alla Notte di Fernando Pessoa

NOTIZIE DI POESIA 2012 , NOTIZIE DI POESIA 2013 , NOTIZIE DI POESIA 2014 , NOTIZIE DI POESIA gennaio 2015 , NOTIZIE DI POESIA febbraio 2015