VEDI I VIDEO “Così come ormai sono” , Intervista , “Un passo, un altro passo” , “Canti dell’ansia e della gioia” di Carlo Prosperi, su testi di Carlo Betocchi

Firenze, 25 maggio 2015 – Il 25 maggio 1986 moriva a Bordighera, in provincia di Imperia, Carlo Betocchi. Moriva vecchio, lui, il poeta della vecchiaia per antonomasia, l’autore altissimo – dall’Estate di San Martino al duro, fermo e inaspettato Breviario della necessità – di un De senectute in versi articolato e intenso di fronte al quale molte stagioni conclusive di poeti laureati, italiani e non, impallidiscono. Moriva vecchio e amareggiato da quella vita cui per tanto tempo lui e la sua poesia avevano spontaneamente aderito, con gioia, come ad un dono immenso; un dono naturale e misterioso, letificante, da benedire e cantare.

Anche il suo canto rientrava in questa rapita e stupefatta visione del mondo, in questa inaugurata sintonia tra parole e cose che partiva da lontano: «Io un’alba guardai il cielo e vidi». Una rivelazione, quella di Realtà vince il sogno; una religiosità preconfessionale, mitica, subito risoltasi in totale disponibilità nei confronti dll’esistenza, in umile ed entusiastica partecipazione al creato e alle sue segrete ragioni.

All’inizio della poesia di Betocchi, Dio e mondo sono assieme: un Dio che ha creato e che crea, un Dio, più che vicino alle sue creature, in esse, perché tutte le cose sono in Dio ipsa creatione assumptæ. È stato Ernesto Balducci a cogliere molto bene nella poesia di Betocchi «una religiosità senza aggettivi», una sorta di «sacralità primordiale da alba della creazione, prima che nascessero diversificazioni e tanto più confessioni di fede». Una sacralità da Genesi inintaccata e incantata, fresca e meravigliosa, riluttante a specificazioni e subentrati indirizzi storiografico-esplicativi, come in definitiva il cattolicesimo del poeta, che si configura in parallelo – diacronicamente verificabile nelle sue attestazioni e nei suoi episodi – come preferenziale «luogo antropologico», «gioiosa immanenza a un universo elaborato in millenni dalla società patriarcale»: un sentimento ancestrale e indiscutibile, un tutt’uno naturale, arcaicamente omogeneo e anteriore alle divisioni imposte dalle ideologie, alle complessità disgreganti e alle separazioni della modernità, della cultura e della storia, teocentrico.

Il Betocchi di Realtà vince il sogno era dunque integralmente giovane: un’armonia rimandava a Dio, a un creatore garante. Non erano belle le sue poesie, ma la natura che esse cantavano, da cui provenivano e a cui ritornavano, su quella ricorrente linea di confine fra tetti e cielo, visibile ed invisibile, i coppi rosseggianti della sua città e del suo lavoro di geometra in giro per cantieri e l’azzurro. «A me interessano altre cose. Aveste visto stamane la campagna…», disse una volta agli amici letterati e intellettuali del «Frontespizio».

Questa fiducia e questo incanto avrebbero poi siglato, com’è noto, un lungo itinerario, facendo pure della vecchiaia, magnificamente, una dimensione ilare e penitenziale dell’obbedienza, un’età del sacrificio del tutto interpretabile e rassicurante. Solo alla fine fiducia e incanto si sarebbero incrinati, lasciando il posto all’insensato, al disinganno, allo strazio. Betocchi e la sua poesia avrebbero da ultimo dubitato della benevolenza del loro Dio-creatore, della validità complessiva di una partecipazione dispensata. Alla ricerca di un unico grande senso perduto, la poesia di Betocchi si era fatta allora prosastica, leopardianamente filosofica e discorsiva, interrogante.

Dal sentire del cuore al ragionare della mente, dall’esuberanza delle rime ai ritmi meno sonanti della meditazione e del silenzio; e tuttavia con acquisti artistici strepitosi, più che mai duttili e originali, in una riconfermata appartenenza creaturale ad una stessa vicenda planetaria di vita e di morte resasi solo più povera: immiseritasi fino alla perdita di ogni risolutivo motivo di certezza o umano vantaggio, forte per via di debolezza, semmai, di una residua, solidale e drammatica «fede, che non è fede» tesa all’anonimato, integralmente spoliata e incircoscritta. In questa chiave Betocchi aveva del resto scritto una in assoluto delle più memorabili e stupefacenti poesie della letteratura italiana del Novecento: «Rotonda terra; scena che si ripete, / in te, del saluto se­rale: consuetudine / mia planetaria, di tegola in tegola, / del mio vivere che se ne va col tuo / trapassare, lume diurno, lento, / sul tetto davanti casa; e mio formarsi, / intanto, un petto come di colomba; / e metter piume amorose per la notte / che viene; ravvolgermi unitario / con essa: pigolio interiore; perdita / del­l’umano: divenir mio universale».

Ancora, però, un suggestivo «metter piume amorose» di colomba «per la notte / che viene», come in Petrarca o in Hopkins; ancora, però, eccessivi dispendi, ancora compiaciuti culturalismi, per dirla con Luzi, «sotto specie umana»; ancora troppo. Ma il perentorio Betocchi del Breviario della necessità è alle porte. Una parabola dell’umiltà si avviava alle sue oltranze, ai suoi estremistici traguardi di un «senza Dio» collettivo, vivo e mutante nel suo parificato, aprivilegiato consistere: «il più assoluto materialismo – parole del poeta – al fuoco della carità».

Marco Marchi

Così come ormai sono

Così come ormai sono
quasi niente divento,
se non qualche dolore
qualche delirio spento,

tal quale una fiammella
al vento, di candela,
quale pone alla Vergine
chi nel suo poco spera

e tra sé molto esige
dallo sperar che umilia:
di quisquilia in quisquilia
sono un uomo che muore.

Carlo Betocchi

(da Poesie del Sabato)

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