Firenze, 30 giugno 2015 – Vince il poeta pistoiese Giacomo Trinci, beniamino del nostro blog, con il post La camera della madre. Giacomo Trinci. Ancora una volta il suo pubblico, affezionatissimo e numeroso, ha voluto premiarlo con una bella quantità di “mi piace” e una significativa serie di commenti. Giacomo Trinci è bravissimo, e il nostro blog ogni volta è pronto a riconoscerne la bravura, a renderle omaggio e  festeggiarla. Come dice sinteticamente Marco Capecchi nel suo commento: “Poesia di grande intensità che rivela Trinci poeta profondo capace di scavare nelle parti più intime e sofferenti degli affetti umani” ; e Rob944, con altrettanta essenziale efficacia: “Vivo, struggente ricordo, realistico come una vecchia fotografia impressa nella mente e fino alla fine”. Evviva Trinci, complimenti!

Al secondo posto della classifica di giugno, con moltissime preferenze ma con un solo commento a post,  Storia di un’intervista. Pound e Pasolini (con i versi di ‘Patto’) e Storia di un’intervista. Pound e Pasolini (seconda parte, con ‘Strappa da te la vanità’); al terzo posto L’assenza secondo Nazim Hikmet, seguito a ruota da La voce del padre. Alfonso Gatto. Come dire Giacomo Trinci davvero in buona compagnia, tra grandi del Parnaso novecentesco italiano ed internazionale.

Buon luglio, buona estate, con le Notizie di poesia (che non vanno mai in ferie, ma quotidianamente continuano ad accompagnarci, a scandire in compagnia dei poeti e di chi ama i poeti i nostri non facili giorni).

Marco Marchi

La camera della madre. Giacomo Trinci

VEDI I VIDEO Io scrivo poesie. Giacomo Trinci ed altri poeti a Castelfiorentino (2005) , Trinci su Italo Svevo, con sue poesie (2012) , Trinci legge da “Inter nos” (da 5:00) , Ancora da “Inter nos”

Firenze, 6 giugno 2015 – Caro Giacomo, con il tuo ultimo Inter nos, edito da Aragno, che libro importante, hai scritto! Un libro per il lettore impegnativo quanto bello, e per te per molti aspetti decisivo come può essere un maturatissimo e insieme sorprendentemente rivelatorio bilancio. Ma mi è capitato in questi giorni di rileggere la tua raccolta del 2006, Senza altro pensiero, e torno a dirti, con rinnovata convinzione: che libro strepitoso anche allora scrivesti! Tutto strazio e delicatezza, limpido e misterioso, «altrove» e al centro di ogni altro pensiero, com’è delle parole della poesia.

Un canzoniere per la madre, Senza altro pensiero, in cui continuativamente il lettore si ritrova alle vertiginose altezze della tua opera d’esordio: quell’indimenticabile Cella da cui nel 1994 ha preso l’avvio il tuo percorso di poeta, che mi permise allora di riconoscere in te un sicuro poeta della contemporaneità, da ascrivere senza timori a un quadro storico (la militanza, per noi, è proprio questo): Trinci, in una mia silloge di scritti critici, subito assieme a Tozzi, Trinci con Luzi e con Zanzotto (questo con generosa attinenza al vero pubblicamente mi riconosce oggi Paolo Maccari nella sua pregevole, centratissima postfazione ad Inter nos).

Quel che è venuto dopo – da Voci dal sottosuolo al tuo Pinocchio in versi, al tuo recente Inter nos  – è disceso da lì. Ma è con Resto di me e con Senza altro pensiero, prima del libro ultimo che potremmo definire libro di consuntivo e di crescita, che i vincoli con le origini sono tornai a farsi più stretti, al punto che queste due raccolte mi si presentano come una sorta di splendido, bipartito corollario analitico a quanto Cella magnificamente registrava e quanto in Inter nos culmina.

L’io – ecco il punto essenziale – risaliva in Cella all’«ante-vita» e partecipava allo scontro amoroso tra il Padre e la Madre: si insinuava nella stretta che lo faceva gemere e imprecare, nascere e morire, aggiungendo febbre a febbre, ansito a ansito, sporcandosi e amando fino in fondo, per poi ritrovarsi – le suggestioni di Rimbaud e del Pasolini delll’Usignolo già si autocertificavano – figlio appeso a quella croce, inchiodato.

Dominava in Cella una scena dell’arte che è scena amorosa: due forme di lotta di cui non è dato sapere l’esito, forse neppure le ragioni. Ma lo scontro avveniva, feroce, per via di cultura. Il manierismo di un rimatore d’amore e di tormento come Michelangelo non si risolveva in parnassianesimo a freddo o in vacuo progetto del postmoderno. La lievitazione dei sentimenti, e in primo luogo del sentimento top dell’amore, si trovava piuttosto costretta a delegare i suoi oltranzistici e scandalosi messaggi, per risultare naturale, all’abnorme e al falso, sino alle forzature antichizzanti, linguistiche e di situazione, del melodramma.

Il problema dell’arte e una casistica musicalmente potenziata, di valore archetipico, rivendicavano insomma, da subito, trattamenti e coniugazioni garanti dell’unica storicità concessa a chi scrive poesia, di chi tenta la vita proprio riconoscendo intriso di morte ciò che persegue con il fanatismo di un adoratore di beni intatti, di volti perduti e potenzialmente irremeabili.

In Senza altro pensiero la «cella» testualmente ritorna (penso al bellissimo quella era la sua camera – vedete – di p. 33 che qui si propone, ma i pezzi bellissimi non si contano), ed è di nuovo un luogo condiviso di vita e di morte di cui sei il caldo testimone, in cui carnalmente si riassumono e si lasciano raccontare la storia di tua madre, la tua e quella del mondo.

Bianca Garavelli ha scritto per te pagine ammirate e ricche di spunti, giustamente enucleando la funzionale presenza in Senza altro pensiero di modelli novecenteschi di «canzoniere alla madre». Ma mancano i due riferimenti più utili per capire: la «mari fruta» di Pasolini, passeretta sugli sfondi dialettali e in lingua di Casarsa, e quell’Anna Picchi tutta natura e rime aperte dei Versi livornesi di Giorgio Caproni.

«Vergine madre, figlia del tuo figlio», diceva il Poeta ultramondano. E come in Caproni, la tua «canzone» da nido pascoliano può dire alla fine, meglio di Freud, chi l’ha mandata: «suo figlio, il suo fidanzato».

Marco Marchi 

quella era la sua camera – vedete 

quella era la sua camera – vedete 
ogni giorno è da qui vive con me

da quando poi salendo queste scale
si sentiva più stanca fino ad ora
è qui il mio luogo che sorveglio fisso 
è in un secondo piano ed una porta

a vetri s’apre verso i campi ed oltre.
era stanca, diceva sempre più 
io sorvegliavo da lontano il cuore

io veglio ancora quello che non muore.
ora è ridotto all’osso è solo cella
astratto punto d’un astratto vero
tutto quello che è stato è un morso asciutto
è il sunto di un racconto della carne.

Giacomo Trinci

(da Senza altro pensiero, Aragno 2006)

I VOSTRI COMMENTI

Marco Capecchi
Poesia di grande intensità che rivela Trinci poeta profondo capace di scavare nelle parti più intime e sofferenti degli affetti umani.

m
Giacomo Trinci è davvero uno che ‘sente’ più degli altri: testimone inquieto della vita, cantore della disperazione ma anche auscultatore di ineffabili dolcezze. Poeta complesso ma non intellettualisticamente compiaciuto, riesce a convertire tutta l’intensità della sua rigogliosa invenzione entro l’orizzonte (sconfinato) della parola. E questo, specialmente oggi, mi sembra dote rara.

CesareRicordo di Trinci della madre, della camera in cui pare vivere ancora con lui, delle scale che sempre più percorreva a fatica, quasi a seguirla passo passo, come in una via crucis fatta di dolore, verso una fine che è poi quella di tutti. Ma il poeta veglia ancora di lei “quello che non muore”, nel rammentare quella parte ancora viva della genitrice che nessuna morte potrà strappare dal cuore di un figlio che ama!

Rob944
Vivo, struggente ricordo, realistico come una vecchia fotografia impressa nella mente e fino alla fine.

Giulia Bagnoli
Bellissimi versi, delicati e intesi. Mi piace molto il verso “io veglio ancora quello che non muore”, perché una madre non muore mai davvero: vive in noi figli.

framo
Resta solo uno “spunto” di riflessione, un “morso asciutto” su ciò che carne ora più non è. Nel profondo saliscendi, fuori e dentro a questa stanza ai limiti del vuoto, l’iniziale invito alla visione, “sentita” come “veglia” sul possibile ritorno ad un’intimità “che non muore”, cede il passo a un “sorvegliare” fin da subito schermato, “da secondo piano”, estenuato e amaro. Un affaccio da camera “con vista” su residui non ancora estinti, e non più pulsanti, di una memoria prosciugata … l’abstract di una storia che ha vibrato (e vibra) di reale umanità. Bellissima. Grazie.

tristan51
Sì, è vero: i modelli di Caproni e di Pasolini sono in questo canzoniere per la madre indispensabili a Trinci al pari di quello pascoliano. Ma è proprio così che l’originalità della sua poesia prende quota, si afferma, e direi si fa vera. Bravissimo Giacomo, unico.

Elisabetta Biondi Della Sdriscia
Giacomo Trinci ha saputo sostanziare la sua poesia di contenuti nei quali il lettore attento può scorgere, in filigrana, modelli ineludibili della nostra poesia di Otto e Novecento, ma su di essi ha innestato una sensibilità profonda nella quale scorgo tratti di grande originalità. Come in questa lirica, che trovo bellissima e non mi stanco di leggere e rileggere, in cui nessuna parola è di troppo e il dolore, composto e virile ma dilaniante, è tutto in quell’alternanza efficace di presenti e imperfetti che si avvicendano chiasticamente, tra ricordo e presente, prolungando nel presente la presenza (“ogni giorno è da qui vive con me”) e riverberando sul passato il dolore (“Si sentiva più stanca”; “era stanca, diceva sempre più”). Tutto ciò che è stato si riassume alla fine nel “morso asciutto” del dolore, una condizione di disarmonia interiore che Trinci esprime magnificamente utilizzando, per ben due volte nel giro di pochi versi, l’anacoluto, facendo irrompere, cioè, nell’armonia del verso la disarmonia del reale. Vorrei sottolineare, infine, l’originalità dell’incipit: la poesia comincia ex abrupto con un discorso a metà, come il mancato utilizzo della maiuscola sottolinea, quasi facendo ricorso ad una tecnica cinematografica. Spero di poter conoscere di persona questo grande poeta.

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