VEDI I VIDEO “Cume me pias el mund!” (“Come mi piace il mondo!”) letta in dialetto e in italiano dal poeta , Perché scrivo poesieRitratto di Franco LoiFranco Loi al Premio Letterario Catelfiorentino 2007

Firenze, 18 luglio 2015 – L’opera di Franco Loi appare situarsi di diritto a quel denso discrimine in cui il riconoscimento profondo di una propria immagine affidato alla parola artistica fa un tutt’uno con il riconoscimento del mondo: di una società che storicamente vive e che parla, di uomini oppressi e in lotta, assetati di libertà, attratti da idee di riscatto, sogni, realizzabili ideali. È là che una ricerca linguistica tra senso e suono, attraverso un’ampia gamma risorse originalissime, contaminate e cangianti di tipo dialettale e gergale, ha magnificamente assunto i connotati di una protratta testimonianza umana vivida ed inclusiva, irrenitente e coraggiosa, rigorosamente responsabile e proprio per questo desiderante: fino a quell’impavida ed esatta immedesimazione per via poetica nin quella «tristezza storica» popolare, epica e liricamente tesa fino alla bizzarria onirica e all’oscenità, espressionistica e contestativa, della quale ha con acutezza parlato Giovanni Raboni.

Poeta, traduttore e saggista, Franco Loi è nato a Genova nel 1930, ma ha vissuto fin dal 1937 a Milano, città alla quale si legano intimame il suo mondo poetico e la scelta del dialetto come lingua di poesia. Dopo la guerra, Loi svolge un’intensa militanza politica. Si impiega in vari mestieri e comincia intanto a scrivere versi: dapprima in italiano, poi, rispondendo a necessità espressive fattesi irrinunciabili ed esclusive, in dialetto. Il suo debutto ufficiale si situa però nei primi anni Settanta con le raccolte I cart (1973) e Poesie d’amore (1974), cui segue nel 1975 per i tipi di Einaudi il poemetto Stròlegh. Autorevolmente prefato da Franco FortiniStròlegh impone Franco Loi come presenza originale e di rilievo nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento.

La vocazione epico-narrativa della poesia di Loi si caratterizza in senso espressionista, mediante l’uso personalissimo di un idioletto dialettale e gergale attinto dagli strati popolari e proletari della città e dell’Interland. La rappresentazione tragica e grottesca della Milano popolana della giovinezza, pure sensibile a continui sconfinamenti lirici e visionari, non è infatti disgiunta dalla riflessione sulla società moderna, le sue contraddizioni e i suoi disagi, non esistendo per Loi due modi distinti di «essere uomo ed essere poeta», ma uno stesso impegno culturale, etico e civile, affidato alla poesia.

Dopo Teater, del 1978, gli anni Ottanta e Novanta vedono l’uscita di numerose raccolte: da L’aria Liberda UmberAmur del temp. La tensione esistenziale e metafisica connaturata al vigoroso afflato libertario del poeta circola sempre più invasiva nei suoi versi, mescolando storia pubblica e storia privata, meditazione e racconto: questo in accordo con una crescente flessibilità dello strumento dialettale, come esemplarmente accade nel notevole poema L’angel, dove una inedita, efficacissima ibridazione espressiva dei registri converge sperimentalmente sul dialetto genovese, il dialetto materno di Colorno e il romanesco.

Anche negli ultimi libri – El ventIsmanAquabella, l’auto-antologia Aria de la memoriaVoci d’osteria, fino ai recenti I niül e Il silenzio –, l’universo poetico tra popolare e onirico del milanese Loi, con i suoi variegati e mutevoli paesaggi urbani, la sua «aria» e il suo Dio lontano e vicino, continua a trovare ispirazione nelle quotidiane vicende della vita e nel valore in esse assunto, costantemente, dal tempo e dalla memoria.

Marco Marchi

Cume me pias el mund! l’aria, el sò fiâ!

Cume me pias el mund! l’aria, el sò fiâ!
j àrbur, l’èrba, el sû, quj câ, i bèj strâd,
la lüna che se sfalsa, l’èrga tra i câ,
me pias el sals del mar, i matt cinâd,
i càlis tra i amîs, i abièss nel vent,
e tücc i ròbb de Diu, anca i munâd,
e i tram che passa, i veder che resplend,
i spall che van de pressia cuj öcc bass,
la dòna che te svisa i sentiment:
l’è lí, el mund, e par squasi spettâss
che tí te ’l vàrdet, te ghe dét atrâ,
che lü ’l gh’è semper, ma facil smemuriâss,
tràss föra ind i penser, vèss durmentâ…
Ma quan’ che ’riva l’umbra de la sera,
’me che te ciama el mund! cume slargâ
te vègn adòss quèl ciel ne la sua vera
belessa sensa feng nel sò pensâss,
e alura del tò pien te càmbiet cera.

Come mi piace il mondo! l’aria, il suo fiato!

Come mi piace il mondo! l’aria, il suo fiato!
gli alberi, l’erba, il sole, quelle case, le belle strade,
la luna che muta sempre, l’edera tra le case,
mi piace il salso del mare, le matte stupidate,
i calici tra gli amici, gli abeti nel vento,
e tutte le cose di Dio, anche le monate,
e i tram che passano, i vetri che risplendono,
le spalle che vanno di fretta a occhi bassi,
la donna che ti turba i sentimenti:
è lí, il mondo, e sembra aspettarsi
che tu lo guardi, che gli dài retta,
poiché lui c’è sempre, ma è facile dimenticarlo,
distrarsi nei pensieri, essere addormentati…
Ma quando arriva l’ombra della sera.
come ti chiama il mondo! come si allarga
e ti viene addosso quel cielo nella sua vera
bellezza senza finzioni nel suo riflettersi,
e allora per la tua pienezza cambi colore.

Franco Loi

(da Isman, Einaudi 2002)

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