Firenze, 31 agosto 2015 – C’era da prevederlo, e così è stato: Cesare Pavese con la sua celebre e bellissima Verrà la morte e avrà i tuoi occhi si è imposto decisamente come il post del mese  (Anniversario Pavese. La morte e gli occhi). Tra i commenti raccolti ci piace segnalare quello di framo, che dice: “‘O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla’. Solo temporaneamente l’opera riesce a lenire le lacerazioni che tormentano il vero artista. Se poi il poeta, con costante consapevolezza, si pone alla ricerca del vero in parola – e di questa si nutre –, lo scacco risulta inevitabile. Come insegna Nietzsche, la dissonanza propria della condizione umana necessita del mascheramento che deriva dall’illusione estetica; solo così la vita, per un attimo, potrà risultare sopportabile. E la bellezza espressa da testi come questo, per me, gli dà ragione” .

Per agosto il podio così si completa: Pascoli e Pasolini al secondo posto alla pari, Bukowski al terzo (rispettivamente con i post La notte di San Lorenzo. Pascoli , La recessione secondo Pasolini e Bukowski e l’uccello azzurro).

Saluti a tutti, a presto,

Marco Marchi

Anniversario Pavese. La morte e gli occhi

VEDI I VIDEO “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” letta da Vittorio Gassman , Profilo di Cesare Pavese , Da “Il mestiere di vivere” , Pavese secondo Milly

Firenze, 27 agosto 2015 – Della maturità, una categoria psicologica, Cesare Pavese aveva fatto un mito, un onnicomprensivo traguardo da raggiungere; a tre parole tratte dal King Lear di Shakespeare aveva affidato quell’obbiettivo, il significato persistente di un esempio: «Ripeness is all», la maturità è tutto.

Fu questo il mito che costò all’uomo Pavese l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, il 27 agosto 1950). Ma fu questo il mito che alimentò una produzione letteraria di prim’ordine sistematicamente impostata all’insegna della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile: della crescita.

«Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura di tutto quanto ho scritto o scriverò». E Pavese, fin dalla raccolta di versi che segnò il suo debutto nell’agone letterario (Lavorare stanca, edita nel 1936 a Firenze da «Solaria»), coltivò quella «fondamentale e duratura unità» che consisteva in una ricerca del vero da effettuarsi tramite parole.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, in Lavorare stanca, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze, ma opposizioni, conflitti; città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia. In Pavese conteranno più di quanto si sia stati finora disposti a credere gli episodi precoci di una formazione in cerca di maturità che, con singolare tempismo, propongono una fenomenologia divaricata, conflittuale, già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella opposizione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore, del narratore e del poeta. Alludo in particolare, semplificando, ai modelli pedagogici forniti sullo sfondo delle Langhe da una simbolica madre ad un orfano (un figlio già obbligato alle separazioni) e al magistero attivo, culturalmente e storicamente coniugato, di un prestigioso professore torinese, Augusto Monti.

Così Santo Stefano Belbo e Torino si emancipano presto in una scissa geografia dell’anima: dell’innocenza e della coscienza, del primordiale e dell’evoluto, della natura e della storia. Ache se il montaliano ingresso nel «mondo degli adulti» nelle liriche di Lavorare stanca si profila per il poeta come una volontarstica conquista dell’uomo, una poesia che vuol narrare apre strade da percorrere allo scrittore. Poesia-racconto, appunto, secondo una celebre dichiarazione dell’autore esordiente, rivolto senza remore all’esempio whitmaniano, Nasce la poesia di Pavese, e nasce, confortata dal riferimento culturale particolarmente ampio e di continuo incrementato, la sua narrativa: da Il carcerePaesi tuoiLa bella estateLa spiaggia, gli esiti maturi del dopopguerra: Il compagnoLa casa in collinaIl diavolo sulle colline, il bellissimo Tra donne soleLa luna e i falò, senza dimenticare le delucidazioni artistiche svolte in chiave mitico-antropologica e psicoanalitica dai Dialoghi con Leucò.

L’esercizio scrittorio di Pavese si lasciò in effetti pilotare solo da se stesso, riducendo a diacronia di soluzioni espressive (talvolta semplicemente giustapposte e così fatte reagire) insoddisfazioni e contraddizioni, bisogno partecipativo e sfiducia nelle collaborazioni al farsi della storia, autenticità dolorosa della solitudine e urgenza di appoggi, oscurità e chiarezza.

L’arte operò i suoi risarcimenti, consentendo risultati individui e resistenti. «Sulle colline il tempo non passa», si legge nei modi lapidari di una sentenza nel romanzo La luna e i falò. Pavese ritrova in questi termini la sua completezza, l’incalco meno imperfetto delle sue ambizioni, della propria immagine. «La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la  verità demonica di piante, acque, rocce e paesi –  si legge del resto nel diario di Pavese alla data del 9 gennaio 1950 –  è un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano». Ma è proprio questo spietato rifuto dell’illusione –  di ogni illusione –  a sostanziare come una realtà già conseguita l’auspicio di cui l’epigrafe alla Luna e i falò si faceva portavoce: «Ripeness is all».

Alla maturità di un’opera che senza infingimenti e tergiversazioni aveva riconosciuto che «crescere vuol dire morire», Pavese era giunto attraverso la scrittura.

Marco Marchi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

(da Verrà la norte e avrà i tuoi occhi, 1951)

I VOSTRI COMMENTI

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Sembra di sentirlo, Cesare, parlarci con le parole del suo amatissimo Spoon River: “Ye living ones, / ye are fools indeed / Who do not know the ways of the wind / And the unseen forces / That govern the processes of life” (Serepta Mason; ecco la traduzione della Pivano: “Voi che vivete, / siete davvero degli sciocchi,
 / voi che non conoscete le vie del vento / 
né le forze invisibili / 
che governano i processi della vita”).

framo
“O cara speranza,/ quel giorno sapremo anche noi/ che sei la vita e sei il nulla”. Solo temporaneamente l’opera riesce a lenire le lacerazioni che tormentano il vero artista. Se poi il poeta, con costante consapevolezza, si pone alla ricerca del vero in parola – e di questa si nutre -, lo scacco risulta inevitabile. Come insegna Nietzsche, la dissonanza propria della condizione umana necessita del mascheramento che deriva dall’illusione estetica; solo così la vita, per un attimo, potrà risultare sopportabile. E la bellezza espressa da testi come questo, per me, gli dà ragione. Grazie.

Erika Olandese Volante
Come finire meglio questa torrida estate se non con con il brivido freddo sapientemente indotto da Pavese… sbattono due fiammeggianti ciglia nere ed ecco il vento che dona un attimo di voluttuoso terrore. Un susseguirsi di immagini indimenticabili: la morte-sensuale compagna, la vertigine del silenzio sospeso, la figura della Speranza che maternamente (e simbolicamente, perché non posso fare a meno di scorgere la “maniera” otto-novecentesca di rappresentare il tema) si china sul proprio riflesso… Godendoci questo letterario videoclip d’autore, viva Pavese! E buon fine estate a tutti.

Aretusa Obliviosa
La parola si fa vana anche in chi si ama, come se l’amore non bastasse a cancellare l’idea della vita come vizio. La vita, appunto, la sua intollerabile assurdità non concedono niente alla speranza, se non il suo disvelamento, ovvero il nulla. Con Pavese il binomio amore-morte perde la sua connotazione ottocentesca e romantica per rinnovarsi in chiave novecentesca ed esistenziale. Una sorta di Leopardi dis-eroico Pavese, per il quale la “cara speranza” si riveste di un nulla eterno i cui deserti non conoscono ginestre.

Giulia Bagnoli
Il 22 marzo del 1950 (stessa data della poesia) nel Diario scrive: “Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe essere morta. Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale”. La partenza della donna amata avvicina il poeta al pensiero della morte ed è una morte interiore; una morte dell’anima. Il giorno dopo, sempre nel Diario, scrive: “L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma”. Questo “morire con clamore” preannuncia il reale suicidio del poeta che avverà cinque mesi dopo. Si tratta di una morte scelta e ragionata. Da questo giorno in poi ogni pensiero di Pavese sembra una pianificazione del gesto estremo. Del resto, non è per amore di una donna che ci si uccide, come scrive il 25 marzo, ma perché “un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. C’è forse qualcosa da dire, che non sia una banalità? Personalmente Pavese mi suscita un profondo silenzio.

tristan51
A quando – torniamo a chiedercelo – un ritorno convinto e condiviso a Pavese, a Pavese narratore e poeta?

Elisabetta Biondi Della Sdriscia
I novenari di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, così intensi e drammatici, sono, a mio avviso, i versi di addio – pesante eredità! – che Pavese ha lasciato ai suoi contemporanei e a tutti noi: risalgono infatti a pochi mesi prima del tragico epilogo di un’esistenza vissuta all’insegna di conflitti e antitesi incomponibili.Versi splendidi, densi e non di rado oscuri, in cui Pavese accosta ossimoricamente elementi antitetici che attraverso la forza espressiva della poesia rivelano come la vita sia un ossimoro inconciliabile essa stessa.La donna e l’amore, simboli di vita, divengono elementi di morte, gli occhi dell’amata, che dovrebbero veicolare emozioni e sentimenti diventano simbolo di incomunicabilità e di silenzi. “I tuoi occhi/saranno una vana parola/un grido taciuto, un silenzio”. E vivere è morire, perché la morte “ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/sorda, come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo”. E questa verità vale per tutti, “per tutti la morte ha uno sguardo”, tutti “scenderemo nel gorgo muti”.

Pietro Paolo Tarasco
Le poesie di Cesare Pavese sono di una incommensurabile bellezza e sprigionano emozioni che pochi poeti riescono a donarci. Negli anni la sua toccante poetica è stata per me sempre foriera di stimoli creativi. Un pensiero profondo in questo triste anniversario.

Rino Pensato
Mi scusi sig. Marchi, forse non ha molta importanza, di fronte al dovere, come ricordato da #tristan51, di “un ritorno convinto e condiviso a Pavese, a Pavese narratore e poeta”, e non si dovrebbero fare ancora “pettegolezzi”, come voleva lui (e io forse ne sto facendo), tuttavia se un giornalista o uno storico riporta delle date, meglio riportarle con esattezza, visto che non è più “cronaca”, bensì storia. Non ci sono più dubbi: Pavese è morto il 27 agosto 1950, non in una notte tra il 26 e il 27 o tra il 27 e il 28. Il suo amico Paolo Spriano ebbe a ricordare che stettero insieme (a bere qualcosa, a parlare) abbastanza oltre la mezzanotte del 26 agosto. Inoltre, essendo domenica, il 27 agosto, in una Torino calda e afosa e trovandosi quasi tutti i suoi amici fuori Torino (la scelta non fu casuale, lo raccontò Natalia Ginzburg), successe che il suo corpo ormai senza vita, fosse ritrovato, da un inserviente dell’albergo, solo dopo le 20 del 27.

Daniela Del Monaco
La morte sembra essere l’unica vera compagna del poeta. Quel “vizio assurdo” che suscita in lui un’irresistibile attrazione, nel momento in cui arriverà, avrà certamente gli stessi occhi del suo amore ormai perduto. Quando la fine che subdola e instancabile segue ciascuno di noi silenziosamente, si paleserà impietosa, farà crollare ogni speranza, ogni possibilità, lasciando spazio solo all’assenza, all’incomunicabilità. E tutti noi sprofonderemo nel gorgo dell’oblio.

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