VEDI I VIDEO Andrea Camilleri si racconta, prima parte  ,  …. e seconda parte , Giovanni Calcagno legge Camilleri

Firenze, 6 settembre 2015 – Auguri ad Andrea Camilleri per il suo 90° compleanno, essendo nato a Porto Empedocle il 5 settembre 1925!

«Non pensavo mai di diventare uno scrittore. Pensavo di avere buone chances in poesia…». Lo avreste mai detto che agli inizi della sua carriera letteraria Andrea Camilleri fosse stato tentato più dalla poesia che dalla narrativa di cui sarebbe poi diventato esponente di spicco, ultracclamato  e ultratradotto, dei nostri giorni?

Sì, proprio così: il futuro padre di Montalbano, giovanissimo, trovava in Ungaretti, Montale e Saba e semmai nel Cecchi prosatore d’arte di Pesci rossi i suoi punti di riferimento privilegiati, i suoi autori elettivi, i suoi modelli. Un’attrazione primigenia e continuata, quella della poesia, da un’infanzia incuriosita e turbata dall’approccio all’Orlando Furioso di Ariosto in una edizione illustrata posseduta dal padre alle prime tappe dell’esordio letterario ufficiale.

Camilleri pubblica infatti su «Mercurio» – rivista romana di politica, arte e scienze diretta da Alba de Céspedes – due poesie: Solo per noi (maggio 1945) e Mito (marzo-maggio 1947), mentre poco dopo, nel 1948, altre sue liriche appaiono nella prestigiosa antologia dei Poeti scelti curata da Giuseppe Ungaretti e Davide Lajolo nella collana mondadoriana «Lo Specchio».

«Non pensavo mai di diventare uno scrittore. Pensavo di avere buone chances in poesia…». Ascoltate l’intervista (incomincia proprio così) nella quale Andrea Camilleri rievoca le tappe salienti del suo percorso umano e artistico e apprenderete questo ed altro dalla sua viva voce: dal suo intrigante fascino affabulatorio di narratore di storie: storie non solo scritte, storie non solo inventate.

Auguri, Camilleri!

Marco Marchi 

Da «La presa di Macallè»

Un lunedì matina ‘a mamà disse a Michilino che per tutta la simana non sarebbe andato alle lezioni. Era venuto l’ordini che i balilla e le piccole italiane dovivano apprisintarsi, ogni jorno alle quattro di doppopranzo e fino al sabato fascista che viniva, al campo sportivo indovi Altiero Scarpin avrebbe detto quello che dovivano fari. […]
In mezzu al campo sportivo era stato costruito in ligno una specie di castello che parse a Michilino priciso ‘ntifico a uno di quei fortini che aviva visto addisignati in un giornaletto e che sirvivano nel Farivest ai soldati del ginirali Custer per arripararsi dei pellirussa Sioux. Però il fortino non aviva pareti, era come ‘na ‘mpalcatura di travi e tavole. Altiero Scarpin l’ammostrò, gloriannosi.
«Quello che vedete» fece «vuole essere la sintesi delle difese apprestate dagli abissini nella città di Macallè da noi espugnata. Noi sabato prossimo, alla presenza dei camerati e dei cittadini che interverranno, rappresenteremo la battaglia per la presa di Macallè. E questa rappresentazione dedicheremo al camerata camicia nera Cucurullo Ubaldo eroicamente caduto proprio in quella battaglia. Sceglierò tra voi dieci balilla che faranno la parte degli abissini e venti balilla che interpreteranno i nostri valorosi combattenti. Tutti gli altri, balilla e piccole italiane, faranno gli effetti sonori. La camerata al mio fianco è la maestra di disegno Colapresto Ersilia che molti di voi conoscono».
La maestra Colapresto, impittuta, fece il saluto romano.
«La camerata ha con valentia disegnato i costumi che ora vi mostrerà».[…]
«Questo» disse la maestra Colapresto «è il costume del ras abissino».
Aviva addisegnato a un nìvuro scàvuso coi cazùna larghi alla vita e stritti in funno, a fisarmonica. Supra il petto nudu portava sulamenti una collana di denti di liopardo, accussì chiarì la maestra, e una specie di bolerino curtu e biancu.
«E questi» prosecuì ammostrando gli altri fogli che le venivano pruiuti «sono i costumi dei soldati abissini.»
Era una cosa a mezzo tra i sarbaggi e gli indiani. Tutti scàvusi, tutti con una specie di gonnellino di diverso colori, avivano collane fatte di conchiglie o petruzze colorate. In mano tinivano o zagaglie o archi con frecce.
«I prescelti per la parte degli abissini» disse la maestra «finita l’adunata si presenteranno a me per pigliare le misure.»
Fece ‘nzinga [a una] fìmmina. Questa pigliò lo scatuluni e glielo portò sulle pidane. La maestra si calò, lo raprì e ne tirò fora un casco coloniali nico nico.
«I balilla che fanno la parte dei nostri combattenti indosseranno questo casco che dovete tenere in perfette condizioni.»
Ripigliò la parola Scarpin.
«Dirò ora i nomi dei balilla prescelti per espugnare la fortezza di Macallè. I balilla chiamati si allineino davanti alla pedana. I capimanipolo Palazzolo e Cachìa sono comandati quali istruttori del combattimento.»
Palazzolo e Cachìa arrivarono di cursa sutta la pidana, salutarono e si impalarono sull’attenti.
Scarpin principiò a dire i nomi dei combattenti taliani. Il quinnicesimo fu quello di Michilino. Quindi tutta la squatra venne portata darrè le pidane indovi ognuno si scigli il casco coloniali che gli cazava meglio. Intanto Scarpin aviva chiamato l’istruttore dei bissini che era uno solo, il vicecapomanipolo Rizzopinna Carmelo, e aviva fatto i nomi dei nìvuri che avrebbero addifeso Macallè. Michilino vitti che ras dei bissini era stato nominato proprio Totò Prestipino e che tra gli altri c’era macari Alfio Maraventano, ‘u figliu del sarto comunista, quello che gli aviva fatto il pìrito. Ai bissini la maestra Colapresto principiò a pigliari le misure. Nel frattempu gli altri capimanipolo, aiutati dai vice, sceglievano le voci.
Quelli con la voci più profunna avrebbero fatto la rumorata delle cannonate:
«Bum! Bum! Bum!»
Quelli con la voci accussì accussì, avrebbero fatto la rumorata delle raffiche delle mitragliatrici:
«Ratatatatà! Ratatatatà!»
Quelli dei balilla che avivano la voci più acuta avrebbero fatto i colpi di moschetto:
«Bang! Bang! Bang!»
Le piccole taliane vennero divise in dù gruppi. Il primo gruppo doviva fari lo scruscio delle frecce che volavano nell’aria:
«Sguise! Sguisc! Sguisc!»
Il secondo gruppo quello delle zagaglie:
«Frrrsss! Frrrsss! Frrrsss!»
L’incarrico di concertare e di dirigere l’insieme delle rumorate se lo pigliò Scarpin in pirsona. Verso la fine dell’adunata portarono l’armamintario per i bissini: manichi di scupa che erano le zagaglie e archi fatti di canna tenuta piegata dallo spaco. […]
Arrivato il sabato, tutto il paìsi scasò e andò al campo sportivo. I balilla e le piccole taliane che facevano le rumorate erano già in campo. Prima niscero i diciotto balilla combattenti con casco e moschetto. Ci fu un tirribilio d’applausi. Po’ niscero i bissini che andarono a pigliari posto nel fortino che non era chiuso da pareti di ligno in modo che tutti avessero la vista di quello che succedeva dintra. A vidiri i bissini accussì pittati e parati ci fu nel pubblico un momentu di silenzio, doppo si scatinaro voci che dicivano «a morti!», pìrita e risati. Scarpin, supra tri pidane (ne era stata aggiunta un’altra) isò un vrazzo, friscò e cumannò.
«Manovra d’avvicinamento!»
I diciotto balilla principiarono a strisciari a panza sutta. Il ras bissino stava arrampicato supra una specie di torretta cchiù àuta e taliava torno torno con la mano a pampèra sulla fronti. A questo punto Scarpin friscò e gridò:
«Artiglieria!»
«Bum! Burumbumbum! Bum!» spararono i balilla di voci prufunna.
Il ras scinnì, i bissini niscero dal fortino, si allinearono con gli archi e le zagaglie pronti alla difisa.
«Mitragliatrici!» friscò e vociò Scarpin mentri i balilla continuavano a strisciari ‘n terra.
«Ratatatatà! Ratatatatà! Burumbumbum! Tatatà! Bum! Bum!»
Il foco si era fatto intenso.
«Fucileria! Fucileria!» urlò Scarpin con tre putenti colpi di friscaletto.
I balilla che strisciavano si susirono, si misero con un ginocchio a terra, pigliarono la mira col moschetto e ficiro finta di sparari. I bissini, sempri davanti al fortino, facivano voci, agitando in aria le armi:
«Uà! Uà! Uà!»
«Bang! Bang! Bang! Ratatatatà! Burumbumbum! Bang! Bum! Tatatà.»
Friscata lunghissima di Scarpin:
«All’attacco!»
I balilla si susirono, isarono le baionette e partirono all’attacco mentri la banna municipali sonava la marcia dei birsagliera. I bissini accomenzarono a fari finta di scagliari zagaglie e frecce. Scarpin fece ‘nzinga all’artiglieria di non sparari più.
«Bang! Bang! Bang! Ratatatatà! Bang!»
«Sguisc! Sguisc! Frrrsss! Frrrsss!» facivano le frecce e le zagaglie.
Scarpin isò un vrazzo, tirò una friscata trimolante. Tutti i balilla attaccanti si misiro ginocchio a terra, addritta arrimase solamenti Gnazino Spanò, il balilla prescelto per fari la parte di Balduzzo Cucurullo. La banna attaccò, in sordina, Tu che a Dio spiegasti l’ali.
«Sguisc!»
Colpito al cori, a Gnazino Spanò cadì di mano il moschetto.
«Muoio! Dono la mia vita a sua maestà il Re Vittorio Emanuele terzo di Savoja!»
Non aviva finuto di dirlo che venne di nuovo colpito. Gnazino si portò le mano sul cori.
«Frrrsss!»
«Muoio! Dono la mia vita a sua eccellenza Benito Mussolini!»
«Sguisc! Frrrsss!»
«Muoio! Dono la mia vita alla patria!»
E finalimenti cadì longo in terra. Tutti i balilla si susirono addritta, ristarono immobili nel presentatarmi.
«Camerata Cucurullo Ubaldo!» chiamò col megafono Scarpin.
«Presente!» arrispunnì tutta la genti susennusi addritta.
«Corpo a corpo!» ordinò Scarpin friscando.
La sparatoria finì e principiò una vera e propia sciarriatina tra balilla e bissini mentri la banna attaccava Tutti mi chiamano tutti mi vogliono, figaro qua, figaro là.
Nel combattimento a mani nude, ogni tanto si sentivano voci:
«Mali mi facisti, curnutu!»
«E iu ti spaccu ‘u culu!»
Alla fine, dei bissini restarono vivi sulamenti il ras e Alfio Maraventano che si arripararono dintra al fortino circondato dai balilla. A questo punto, trasirono nel fortino Michilino e Tano Pizzicato. Michilino si trovò a fari la lotta con Alfio, mentri Pizzicato cummattiva col ras. La gente incitava i dù balilla:
«Ammazzàtili! Facilini purpette!»
Alfio, mentri s’afferrava con Michilino, calò la mano dritta, gli agguantò le palluzze dell’aciddruzzo e stringi più forti che poté. Michilino cadì ‘n terra turciuniannusi, gli mancava il sciato. Ma arrivarono altri balilla di rinforzo, i dù bissini s’arresero, il balilla Spampinato Benito acchianò supra la torretta, ci chiantò la bannera driccolore. La banna attaccò Salve o popolo d’eroi e la rappresentazioni finì in un subisso di battimani.
Il patre del caduto Balduzzo Cucurullo (la matre non era voluta venire) venne portato davanti a Scarpin che gli spiò orgogliuso:
«Che gliene è parso?»
«Una minchiata sullenne» fece asciutto il signor Cucurullo.

Andrea Camilleri 

(Il testo, adattato per la lettura, è tratto da La presa di Macallè, in Romanzi storici e civili, Mondadori)

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