VEDI IL NUOVO, IMPERDIBILE VIDEO “Primo Piano-Pier Paolo Pasolini” di Carlo Di Carlo. Pasolini si racconta, con lettura d’autore di “Io sono una forza del passato…”

30 dicembre 2015 – Ebbene sì. Dopo essersi meritato il gradino più alto del podio novembrino, il post Pasolini quarant’anni dopo diventa adesso il post dei post 2015. Seconda grande affermazione del post commemorativo, per quantità di gradimenti espressi e quantità di commenti formulati: commenti , oltre che ampi – come notavamo due mesi fa, nel commentare al quadrato i commenti – quanto mai divisi, tra i quali convivono fianco a fianco, come il lettore vedrà, il giudizio staordiariamente positivo e la notazione perplessa, il rimpianto che Pasolini non sia più con noi e il persistente, pregiudiziale e moralistico, anche volgare rifiuto della sua figura di scrittore scomodo, di intellettuale anticonformistico e votato per appartenenza poetica alla provocazione e allo scandalo, di “diverso” aperto nei confronti di tutto ciò che in una società ingiusta e violenta come quella in cui si trovava a vivere gli appariva diverso, minoritario, minacciato, vessato e oppresso, e per questo a lui fraterno, bisognoso di aiuto, di condivisione.

E ripetiamoci pure, nell’affermare che questa registrabile divaricazione – che ha peraltro contribuito ad avvantaggiare il post pasoliniano su altri, in particolare Leopardi e l’infinita vanità del tutto e I fiumi di Ungaretti , facendone il superpost del 2015 – assume un indubbio valore sociologico, risolvendosi in un indice oltremodo sensibile, tutto da valorizzare: un segnale positivo e inconfutabile di quanto, continuando a suscitare reazioni, poco importa se di entusiastico consenso o di feroce dissenso, Pasolini sia ancora attuale, vivo e presente nella nostra cultura come lo era quarant’anni fa. In altri termini, dopo tanti anni Pasolini si riconferma un grande, un grande, appunto, il cui messaggio ancora autorevolmente si impone e non smette di far discutere.

La necessità di Pasolini e della sua opera è rilevata del resto, in maniera diversificata ma in sostanza convergente, da molti dei vostri commenti. Tra essi, che qui riproponiamo in evidenza, colpiscono e fanno particolarmente riflettere quelli di Isola Difederigo, di Greta e di Giacomo Trinci. Nell’ordine, quasi a comporre un imprevisto, suggestivo testo unico a più mani: “Qualcuno ci fu, allora, che pianse con Pasolini la morte di un poeta. Quale altro significato dare, anche oggi, a questa ambigua, sconcertante figura messianica che ha calcato da protagonista la scena della cultura italiana per un quarto di secolo e d’un tratto ha preso il volo, lasciandoci da soli a cercarlo nella realtà viva della sua opera, perplessi eppure fiduciosi, come gli apostoli nel finale del ‘Vangelo secondo Matteo’, di fronte ad una così grave e lieve eredità.“; “Incompreso intellettuale del dissenso, profeta in patria. A ribadirlo qui un gioco dʼallitterazione, ma a quarantʼanni da quellʼIdroscalo di Ostia, ancora oggi non ci restano che il ricordo e la memoria, forse gli unici, soli, passaporti per lʼimmortalità. Dʼaltronde, è stato proprio lo stesso Pasolini a trascendere, nei pochi anni che gli sono stati concessi, qualsiasi dimensione spazio-temporale, squarciando archi temporali sbalorditivi. Chi meglio di lui ha saputo predire, e dimostrare, come lʼomologazione della rampante economia capitalista (forse il vero ‘fascismo’ della nostra epoca) sia capace di distruggere lʼuniverso interiore degli uomini esattamente come quello esteriore? Per me resta, ad oggi, la più grande dimostrazione di come il talento, ma soprattutto la verità, non abbiano schieramento politico. Perché, ancora una volta, ‘La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere più compresi’.“; “Pasolini credeva in una lingua di verità continuamente inseguita, sfiorata, riperduta; questa sete di purezza aveva origine nella poesia; per questo quando anche da parte di stimati intellettuali e poeti si è parlato di un Pasolini ‘poeta senza poesia’, bisognerebbe precisare meglio la questione, alludendo al fatto che, proprio il fatto di possederla come sguardo originario sulle cose, sul mondo, costringeva il poeta stesso adassumerla come orizzonte verso il quale continuamente tendere: come un vero credente, appunto, che non ozia pacificamente in una fede ricevuta una volta per tutte, ma la reinventa ogni volta, la perde sempre. Il canto friulano iniziale è solo la veste prima di un percorso continuamente problematizzato, indagato, discusso; ma sempre da quella originato: dal linguaggio ‘troppo difficile e troppo facile’ della poesia, appunto.

Buona rilettura, e buona visione del nuovo video aggiunto, che vi raccomandiamo: una sintetica ma attendibilissima ricostruzione d’autore per via di intervista davvero utile per conoscere e capire meglio Pasolini.

A domani con i vostri migliori commenti e gli auguri!

Marco Marchi

Pasolini quarant’anni dopo

VEDI I VIDEO Pier Paolo Pasolini legge “Le ceneri di Gramsci” , L’inizio di “Accattone” , Il finale di “Mamma Roma” , “Io sono una forza del passato” (da “La ricotta”) , “Meditazione orale” , L’orazione funebre di Alberto Moravia

Firenze, 2 novembre 2015 – Ricordando che quarant’anni fa, il 2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini fu assassinato al Lido di Ostia e segnalando questo evento in programma a Firenze per giovedì 5 novembre: Pasolini: la Poesia e la Storia

La testimonianza poetica di Pasolini si origina da una chiamata di tipo squisitamente linguistico: una chiamata legata a una parola dialettale come “rosada”, rugiada, sentita risuonare in Friuli in un mattino inondato di sole dell’estate del 1941; una chiamata suggestiva quanto cogente, religiosamente folgorante come nelle conversioni, destinata a siglare l’intera, complessa vicenda artistica e intellettuale pasoliniana.

Pasolini sarà da quel giorno, prima di tutto, un poeta, e la poesia, in tutte le sue praticabili “forme”, sarà l’elemento fondante e unificante della sua presenza nel mondo, del suo messaggio. Un’obbedienza fattasi immediatamente scrittura (“E scrissi subito dei versi”, come testimonierà Pasolini stesso, riferendosi alle Poesie a Casarsa), che presto, per gradi ma con crescente sicurezza, implicherà per lui l’apertura adulta dell’“io” agli altri e al confronto con la Storia: la Storia con le sue ragioni e le sue assurdità, le sue contraddizioni e le sue violenze, le sue ingiustizie e le sue possibilità di riscatto.

Dalla Scoperta di Marx che suggella L’usignolo della Chiesa Cattolica alle Ceneri di Gramsci, dalle raccolte degli anni Sessanta La religione del mio tempo e Poesia in forma di rosa a Trasumanar e organizzar e La nuova gioventù, la produzione in versi di Pasolini registrerà, tra partecipazione collettiva e difesa della persona, implicazioni costanti e a ben vedere sempre più drammaticamente efficienti. Mai dismessa non solo come “vocazione” ma anche come preciso genere letterario, la poesia rivendicherà nel corso degli anni, tra “passione” e “ideologia” e all’insegna di un inesausto sperimentalismo, modalità comportamentistiche, prospettive d’intervento e fiducie ad essa ascrivibili sempre diverse.

Pasolini, com’è noto, aveva a suo tempo individuato nell’endecasillabo e nella terzina dantesca in aggiornata accezione novecentesco-pascoliana un affidabile strumento per raccontare il sociale e la cronaca che si fa Storia: una moderna narratività poetica che trova nei poemetti delle Ceneri di Gramsci la sua tenuta più compatta e il suo momento più alto. Poi, già con le raccolte degli anni Sessanta, la bilancia oscilla pericolosamente: quel tentato equilibrio non regge, quella forma sperimentata con profitto si sfalda e la poesia cambia faccia, prestandosi a mille oltraggi e a mille nuove identificabilità, sino a fare di se stessa, di se stessa com’era un tempo, una contraddizione instante o un recidivo simultaneismo.

Basti pensare al Pasolini che autoterapeuticamente scrive, tra canzoniere d’amore e poesia perduta come l’amato dedicatario Ninetto Davoli, L’hobby del sonetto, ridisegnando nel segreto, in parallelo alle poesie civili confluite in Trasumanar e organizzar, una zona di libertà da quel dovere sociale così pressantemente sentito: un dovere che, falliti i suoi allargati obiettivi d’amore umanamente fondanti e qualificanti, ha analogamente deluso, rendendo impronunciabile la parola “speranza”.

Il poeta si trasforma, la poesia si trasforma, e tuttavia quest’ultima si riconferma strumento privilegiato dell’eresia di Pasolini, finanche sua modalità costitutiva, nel farsi voce alla Rimbaud della disappartenenza di un congenito, consustanziale maladjustement protestatorio nei confronti del reale.

È naturale (e in ciò dissentirei, nella valutazione complessiva del percorso di Pasolini poeta, anche da troppo facili arresti a cronologie alte, laddove cioè la poesia è più agevolmente identificabile come tale, secondo parametri maggioritari condivisi e così sociologicamente autorizzati) che la poesia si faccia diversa, irriconoscibile, disposta a pagare il prezzo della sua diversità nell’affrontare ogni volta da capo il mondo e la Storia, a subire le conseguenze degli scandali e delle delusioni che – sfigurata e irriconoscibile come si presenta – essa stessa determina.

Anche la parola di Pasolini intellettuale si fa all’accorrenza intrattabile e distante come la testimonianza polemica di un vero eretico. È allora che la sua eresia parla per emblemi sibillini, diventa poetico trobar clus, verbo oscuro ribelle alla semantica limitante della convenzione, voce votata all’entropica polisemia e alla deriva di senso.

Il linguaggio diventa simbolico-mistico, inaudito e non integrabile, volto ad operare su un piano di per sé interessato a presentarsi altro, alieno e discontinuo, allestendo un vaticinio problematico e indecente, potenzialmente incompreso, che non ricerca ascolto solidale perché gode, indecentemente appunto, della sua intrattabilità eccessiva e paradossale: dall’antipoetico manifesto in poesia e dalla giornalistica poesia d’intervento sul fatto del giorno al culto, manieristico, solipsistico e dolente sonetto lirico à la manière de Shakespeare.

Marco Marchi

Le ceneri di Gramsci

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo



alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
alle officine di Testaccio, sopito
nel vespro: tra misere tettoie, nudi


mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.
Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte

e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga… quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
– familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie
invocazioni…

III

Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei

morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)

E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
qui nella quiete delle tombe – e insieme –   

quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando la supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.


Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso


che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,


soffocato e accorante – dal dimesso
rione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso… povero, vestito

dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,

delle panche dei tram, da cui stranito
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento


del mantenermi in vita; e se mi accade
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale


così come, confuso adolescente, un tempo
l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso


– con te – il mondo, oggetto non appare
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?


Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando


il mondo che odio – nella sua miseria
sprezzante e perso – per un oscuro scandalo
della coscienza…

IV

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro di te; con te nel cuore,
in luce, contro di te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
–
 nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…

Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

V

Non dico l’individuo, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale…
altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare…
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale

oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche

le manie con cui dispone il cuore;
e ancora più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza… e ironico ardore

liberale… e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute… Fino alle infime minuzie

in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia… Ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l’io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento… Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suona

Shelley… Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, estetica

e puerile: mentre prostrata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,

sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro…
Nella maremma, scuri, di stupende fogne

d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa… Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii

del mare… E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza

ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome

del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,

in luride spiaggette…

Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?

Pier Paolo Pasolini

(da Le ceneri di Gramsci, 1957; il poemetto eponimo qui proposto è del 1954)

I VOSTRI COMMENTI

m
Pasolini è stato tante cose, ma senz’altro e prima di tutto è stato uno dei più grandi poeti del Novecento. E invece c’è come un blocco: sono ancora in molti a non riconoscere questo primato. Eppure le sue poesie rimarranno fra i classici di un secolo complesso, doloroso, ma anche denso di straordinarie espressioni artistiche.

Marco Capecchi
Un poeta, un intellettuale, un eretico di cui a quarant’anni dalla morte, si avverte ancora l’assenza e la necessità. Un uomo “verticale” che rimarrà coscienza critica di questo Paese moralista e qualunquista.

Anita Mueller
Ci spiegava anche l’abbandono della vita rurale per quella urbana … l’esodo di massa da una circostanza, la campagna, in un’altra, la città. Rovesciando quindi gli equilibri fin lì in atto. Subendo la società un trauma che tuttora è operativo …

oldbatman
Pasolini era di sinistra ma criticava la sinistra ed era inviso alla sinistra. Un sognatore, un teorico, un crtico che con grande abilità metteva in evidenza le contraddizioni della politica reale, dei Politici. Un Comunista in grado di fare ragionamenti. Un Ossimoro, insomma.

Anita Mueller
Ti sei dimenticato di dire che con questo suo lavoro campava e nemmeno male. Comunque meglio dei suoi lettori e spettatori.

Giacomo Trinci
Pasolini credeva in una lingua di verità continuamente inseguita, sfiorata, riperduta; questa sete di purezza aveva origine nella poesia; per questo quando anche da parte di stimati intellettuali e poeti si è parlato di un Pasolini “poeta senza poesia”, bisognerebbe precisare meglio la questione, alludendo al fatto che, proprio il fatto di possederla come sguardo originario sulle cose, sul mondo, costringeva il poeta stesso ad assumerla come orizzonte verso il quale continuamente tendere: come un vero credente, appunto, che non ozia pacificamente in una fede ricevuta una volta per tutte, ma la reinventa ogni volta, la perde sempre. Il canto friulano iniziale è solo la veste prima di un percorso continuamente problematizzato, indagato, discusso; ma sempre da quella originato: dal linguaggio “troppo difficile e troppo facile” della poesia, appunto.

Giulia Bagnoli
Parlando con la tomba di Gramsci, Pasolini esprime le sue contraddizioni: cuore e ragione; borghesia e marxismo. L’intellettuale marxista rappresenta il sogno e la speranza, ma appena ci allontaniamo dalla sua tomba ci ritroviamo al di fuori dalla storia, in una società dei consumi che omologa le persone e annichilisce. Del resto se citroviamo alla fine della storia, possiamo ricominciare da capo, sempre con la quella “disperata passione di essere al mondo”.

Giacomo Trinci
Bellissimo il pezzo di Marco Marchi, che entra veramente dentro la questione della poesia in Pasolini. Finchè non affrontiamo seriamente le ragioni di un percorso poetico che sa di una continuariassunzione della centralità della poesia stessa e del suo sguardo originario, ogni tentativo di afferrare la complessa personalità di Pasolini rimarrà ammezzato. Marchi per questo, in poche lucide righe, mette al centro una fenomenologia del poetico che risulta l’unica lente da cui guardare il poeta delle ceneri, nelle sue metamorfosi e nel suo difficile destreggiarsi in punta di passione.

tristan51
Sulla centralità della poesia in Pasolini, completamente d’accordo con la presentazione di Marchi e con i commenti di m e di Giacomo Trinci. E che bella l’orazione funebre ferma e appassionata di Moravia! Nessuno avrebbe potuto dire parole più giuste ed autorevoli.

Isola Difederigo
Qualcuno ci fu, allora, che pianse con Pasolini la morte di un poeta. Quale altro significato dare, anche oggi, a questa ambigua, sconcertante figura messianica che ha calcato da protagonista la scena della cultura italiana per un quarto di secolo e d’un tratto ha preso il volo, lasciandoci da soli a cercarlo nella realtà viva della sua opera, perplessi eppure fiduciosi, come gli apostoli nel finale del “Vangelo secondo Matteo”, di fronte ad una così grave e lieve eredità.

Massimo F.
De mortuis nihil nisi bonum. Ma per me resta sempre un pessimo esempio.

iddu
40 anni senza pasolini…beh,siamo sopravvissuti.

Greta
Incompreso intellettuale del dissenso, profeta in patria. A ribadirlo qui un gioco dʼallitterazione, ma a quarantʼanni da quellʼIdroscalo di Ostia, ancora oggi non ci restano che il ricordo e la memoria, forse gli unici, soli, passaporti per lʼimmortalità. Dʼaltronde, è stato proprio lo stesso Pasolini a trascendere, nei pochi anni che gli sono stati concessi, qualsiasi dimensione spazio-temporale, squarciando archi temporali sbalorditivi. Chi meglio di lui ha saputo predire, e dimostrare, come lʼomologazione della rampante economia capitalista (forse il vero “fascismo” della nostra epoca) sia capace di distruggere lʼuniverso interiore degli uomini esattamente come quello esteriore? Per me resta, ad oggi, la più grande dimostrazione di come il talento, ma soprattutto la verità, non abbiano schieramento politico. Perché, ancora una volta, «La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere più compresi».

Framo
Vivere eludendo la vita, in “ebbrezza di nostalgia” verso quella forza originaria – sensualmente critica perché umana – che sa, ha saputo e saprà conferire “una luce poetica” al tormento immutato di mantenersi in vita. Siamo chiamati a non “ingannare la luce”, “a non dare luce all’inganno”, né ad essere posseduti da una luce che non serve. Piuttosto ad amare il mondo che si odia perché ci odia o ci è indifferente, cercando nel “petto il senso di una vita che sia oblio accorante”, più vicino alla natura perduta o riposta che alla coscienza distorta, alienata o alienante, di un, ahimè, non più povero, miserrimo presente. Grazie Pasolini.

M.S.
Analisi profonda e impeccabile quella di Marco Marchi di una figura così importante come quella di Pasolini, intellettuale geniale che nella sua costante e lacerante ricerca della verità è stato capace di scendere nelle zone d’ombra della nostra società. Da questa catabasi nasce un linguaggio che investe le arti tutte (e il cinema con la sua plasticità ne è l’esempio più lampante), ma è nella poesia che trova la sua espressione prima. E come giustamente Marco Marchi sottolinea, è una parola del suo dialetto, “rosada”, musicale, viva, portatrice ancora di un legame umano con le cose, che genera in Pasolini un canto in grado di toccare le corde più intime dell’io e di far riscoprire bisogni ben lontani da quelli consumistici.

Elisabetta Biondi Della Sdriscia
La limpida classicità delle Ceneri reca in sé, in nuce, molti dei motivi che si riproporranno, in modo più drammatico, nelle opere successive. Pasolini a quest’altezza, infatti, aveva già individuato molte delle drammatiche contraddizioni della società italiana e parte di quelle contraddizioni le viveva tormentosamente in prima persona. Non è dunque un caso se i limpidi endecasillabi delle Ceneri sono così ricchi di antitesi, di ossimori, che richiamano la contraddittorietà del reale. Pasolini, quando scrisse il poemetto dedicato a Gramsci, sperava ancora di poter incidere, come intellettuale, sulla realtà, sperava ancora in un’evoluzione positiva della società, prevale perciò in lui l’esigenza di una chiarezza comunicativa che poteva esprimersi al meglio attraverso una forma tradizionale di poesia. A poco a poco però egli vedrà delusa la sua speranza e la sua poesia sperimenterà allora nuove forme, profetiche, difficili, più involute, ma non per questo meno poetiche e profonde. Pasolini cercherà anche, sempre di più, di trovare altri mezzi espressivi, per comunicare la sua lucida visione della realtà. E “la disperata passione di essere nel mondo” diventerà, dieci anni più tardi, il “selvaggio dolore di esser uomini”.

Aretusa Obliviosa
Pasolini è quanto di più scolnvolgentemente attuale il nostro Novecento ci abbia dato. Eppure in lui l’urgenza del presente e la nostalgia del passato convivono mirabilmente in una poesia a volte volutamente dissonante altre volte formalmente solenne e classica. Un po’ come lo stesso Pasolini, scandaloso e amante della tradizione al tempo stesso. Nelle Ceneri c’è un paesaggio di colori acidi e di fosforescenti, di consistenze marcescenti e umide, evocatrici di certe tavolozze baudelairiane e decadenti. In questi paesaggi il vizioso garzone non fa che ribadire un’incolmabile distanza rispetto al leopardiano “garzoncello scherzoso”, così come le urne abbandonate in cimiteri di umidi sentori non possono non rimandare per contrasto alle urne illustri eternate nei “Sepolcri” foscoliani. Immerso in questa onirica realtà il poeta stesso, prigioniero dell’ennesimo ossimoro, quello della propria condizione, della propria esistenza, amando il mondo che odia, nello scandalo della propria contraddizione. Ed è con uno sguardo epicamente contemporaneo sulle forme della terra che ci è madre e patria che PPP conclude il suo novecentesco poema.
Credo che nessun contemporaneo più di PPP abbia lo spessore di un classico.

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