VEDI I VIDEO Perché leggere, perché scrivere , “Dialogo di un venditore di almanacchi e un passeggiere” di Ermanno Olmi, dalle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, (1954) , “Filastrocca di Capodanno” di Gianni Rodari

Firenze, 31 dicembre 2015 – Cari amici, eccovi anche quest’anno, per ricordare il 2015 trascorso insieme e festeggiare il 2016 in arrivo, un florilegio di quanto avete scritto nel corso dell’anno  a commento dei post apparsi giorno dopo giorno in queste Notizie!

Evviva, e auguri! Che il 2016 sia per tutti voi un anno pieno di gioia e serenità! Sempre in viaggio, soli e insieme, fiduciosi pellegrini delle poesia, come l’opera di Pietro Paolo Tarasco che illustra questo post suggerisce! Ancora auguri, auguri di cuore dal Vostro

Marco Marchi

I COMMENTI PIU’ BELLI DEL 2015

framo
Può far commuovere un uomo il canto segreto che accompagna nell’intimo il sonno di Bukowski. Preme di giorno e – un poco, solo talvolta, al buio, per brevi istanti, a insaputa degli altri – riesce a farsi liberare per poi essere tacitato, di nuovo e maldestramente, nelle durissime “ore di veglia”. La creatura che qui lo rivendica ha lo stesso colore (azzurro – celeste … chiarezza … candore … tenerezza) del vestito del suo “vecchio”, riflesso nello specchio e indossato dal poeta ne “I gemelli”, mentre agita “le braccia come un spaventapasseri nel vento” nel tentativo “vano” di tenere il padre in vita. Avrebbero “potuto essere gemelli” poeta, padre e uccello: tutti e tre tenuti in vita dalla grazia struggente di una scrittura intensa e confidenziale, per noi così densa di non dissimili, dolenti emozioni.

Affini nel potere della “speranza”. Per la Dickinson “canta melodie senza parole e non smette mai”, Campana la invoca per ripetere più volte i suoi “muti canti”. La speranza, per entrambi silenzio perpetuo che canta senza vocaboli, mediante un alfabeto-non alfabeto tutto interiore, ora protegge l’io-poeta e niente gli sottrae (Dickinson), ora dischiude le “taciturne porte” delle tenebre immettendo in una dimensione in cui l’io soggettivo dal “sogno vanito” , avendo assunto la “morte”, diviene voce universale, l’io poetico dalle possibilità infinite (Campana). Che poeti!

Il “tu” poetico di Rilke, qui carico di “sterminata e sfuggente attesa” (forma pura in puro transito), ci pone in contatto con “l’essenza delle cose”: duale, ambigua, se detta indicibile e, comunque, mai definitiva. E a noi – spiriti inquieti e, nonostante tutto, pur sempre desideranti -, la magia di un incontro così ravvicinato (e magnifico) col mistero non estinto della promessa dà conforto. E che sollievo la possibilità di un “altro” andare.

Marco Capecchi
Stupisce l’innocenza della parola. Sorprende la semplicità dei versi. Incanta la serenità dei contenuti. Questa è Dina Ferri, poetessa di Cinigiano, morta giovanissima. Da leggere per la profondità di un dire non colto e forse per questo capace di trasmettere emozioni insolite.

Talvolta la lingua madre, il dialetto, esprime sentimenti e idee con una forza che la lingua colta non raggiunge: è quando la parola si fa carne. Buttitta è tutto questo. E a proposito di dialetto, consiglio agli amici del blog che non l’avessero letto: “Terra matta” di Vincenzo Rabito, Einaudi.

Pasolini, coscienza critica di un Paese in caduta libera, riesce a pensare all’eterno presente di una capitale volgare ed a intrecciare storia e quotidiano in un continuo rimando tra l’ieri e l’oggi ricordandoci ciò che non siamo mai stati. Leggerlo e rifletterlo ci fa sentire orfani e soprattutto ci ricorda quanto minoritaria sia stata e sia, in Italia, una cultura luterana.

Daniela Del Monaco
Per Virgilio Orfeo si sarebbe voltato perché colto dall’improvviso e travolgente desiderio di vedere la sua Euridice, ma la lettura novecentesca fatta da Cesare Pavese sostiene che Orfeo si sia voltato di proposito perché il cantore non era sceso agli inferi con lo scopo di riavere al sua metà, ma solo perché “voleva ritrovare se stesso”. Anche Roberto Vecchioni nella sua canzone dal titolo “Euridice” accetta la lezione pavesiana. Anche il suo Orfeo, infatti, si volta volutamente per evitare che la sua amata debba provare di nuovo il dolore della morte che ha da poco subito: “Ma non avrò più la forza di portarla là fuori (…) mi volterò perché l’ho visto il gelo che le ha preso la vita, e io, io adesso, nessun altro, dico che è finita”.

Come il pastore errante dell’Asia di Leopardi, il poeta-Primo Levi bambino si rivolge agli astri cercando l’amore, la cui assordante assenza lo porta, ormai uomo, a rinnegare il senso
dell’esistenza individuale e universale. Aveva scritto Ungaretti: “E per pensarti, Eterno, / (l’uomo) Non ha che le bestemmie”. E dopo il dramma della morte la certezza assoluta che solo l’amore riporta alla vita, solo l’amore…

In questa poesia di guerra di Ungaretti la morte assume un duplice significato. Se è vero che in primo luogo essa provoca l’impossibilità della parola e di ogni espressione del dolore, allo stesso tempo diventa una liberazione dagli orrori della vita. Il pianto che non si vede, impietritosi come fosse una pietra fredda, appartiene ormai auna realtà dura e disanimata. Per Ungaretti la morte indica il momento di transito e di recupero di quella realtà edenica abbandonata al momento della nascita e ci riporta dunque a quell’esperienza originaria di perfezione.

Elisabetta Biondi Della Sdriscia
Quello della caducità della vita è un tema che attraversa tutta la letteratura occidentale dai greci Alceo e Mimnermo fino ai giorni nostri, e non a caso, perché esso è strettamente collegato a quello che Luzi ha definito “l’enigma”, l’interrogativo esistenziale al quale nessuno può sottrarsi. In quest’ode oraziana, di cui neppure l’abuso che ne è stato fatto riesce a offuscare la limpida e classica bellezza, vorrei sottolineare un elemento che mi colpisce: in essa il concetto del flusso inarrestabile del tempo e la sua inafferrabilità è assolutamente centrale e Orazio ne ribadisce l’importanza a più riprese. Intanto mediante l’utilizzo del termine “aetas”, collocato in posizione strategica, all’inizio dell’ultimo verso, subito prima del punto fermo. “Aetas” è il tempo biologico nella sua continuità, ha la stessa radice dell’avverbio greco “aiei”, sempre, e dell’aggettivo latino “aeternus”, e si contrappone a “tempus”, il tempo segmentato, che, invece, è connesso alla stessa radice del greco “temno”, tagliare. Poi attraverso l’utilizzo di quel futuro anteriore, “fugerit”, che contrapposto al presente in corso di svolgimento di “dum loquimur”, ci dà una straordinaria sensazione di precarietà. Infine attraverso il flusso del verso con i suoi continui enjambement, che proiettando, ogni verso su quello successivo, contribuisce efficacemente a creare la sensazione di scorrimento inesorabile.

Splendida e straziante, questa poesia di Victor Hugo dedicata alla figlia, ma anche sapientemente costruita in vista del finale a sorpresa che ci svela chi sia quel “tu”da cui il poeta non può stare lontano. Tutto il componimento è giocato sul filo dell’equivoco voluto che ci fa credere che il poeta debba raggiungere una donna da lui amata, non la sua tomba, e sull’antitesi io/tu. In particolare il pronome personale “je”, sottinteso nella traduzione italiana, è ripetuto per ben dieci volte nel corso di questi pochi versi, una concentrazione che non può essere casuale, che esprime, forse, in modo martellante, il ripiegamento del poeta su se stesso e il pensiero fisso, totalizzante, che lo pervade, di raggiungere quel “tu”su cui i suoi pensieri sono concentrati. Tutta la tensione accumulata “nel viaggio” delle tre quartine si stempera però nella dolcezza del verso finale, in cui anche il dolore sembra placato dal raggiungimento della meta, che implica una vicinanza fisica nonostante la morte, e nella presenza partecipe, attraverso il bouquet, di quella stessa natura che aveva negato e ignorato durante il viaggio. Ermione.

La poesia di Cristina Campo ci appare in tutta la sua rarefatta bellezza, fiore sublime, non disgiunto da un velo di voluta oscurità che lo rende ancora più prezioso. Nei suoi versi sentiamo la profondità dell’anima e la sua irraggiungibile lontananza. Non è la prima volta che leggendo versi della Campo vi colgo un’eco del grande Osip Mandel’stam.

Cesare
In questa poesia di Esenin c’è un amore completo, delicato e passionale. I galli cedroni ne sono il riferimento! Trovo tutto perfetto.

Isola Difederigo
Tra la bestemmia e la preghiera, la litania funebre e la ballata ergastolana, Viani poeta torna a confrontarsi con il mondo della marginalità e della devianza, secondo la tipica disposizione vianesca agli autorispecchiamenti metaforici in un flusso figurale continuo dell’inespresso caotico e grottesco. Si profilano dispersi grumi esistenziali affidati alla griglia delle concatenazioni ritmiche e foniche a effetto nonsense, che è quanto sopravvive nei rastremati indizi del verso di una visionarietà da emarginati spinta fino alle cronache della pazzia. Ed ecco poi un Viani evocativo, lirico e musicale, disposto ad accordare la sua scrittura pittorica ai ritmi misteriosi ed eterni della natura, e a coglierne i riflessi in una luce serale in cui tutti i colori si fondono, si fanno luce di poesia. Un Viani, in ogni caso, che non graffia più, ma che anche così testimonia, da indiscusso maestro del Novecento, l’esperienza di una realtà che non si lascia più rappresentare se non attraverso un doloroso rapporto di scambio fra vero e assurdo.

Scrittore anche lui senza parola, anche lui costretto, come il suo bestiario araldico e come le sue seducenti allegorie narrative, all’immobilità, Arturo Loria continua per tutta la vita a scrivere, non potendo raccontare altra vita se non quella che si svolge nelle sue immaginazioni. E pure così un grande scrittore, che aspetta ancora di essere riletto e riconosciuto nei suoi indiscussi capolavori da severa antologia del Novecento italiano.

Qualcuno ci fu, allora, che pianse con Pasolini la morte di un poeta. Quale altro significato dare, anche oggi, a questa ambigua, sconcertante figura messianica che ha calcato da protagonista la scena della cultura italiana per un quarto di secolo e d’un tratto ha preso il volo, lasciandoci da soli a cercarlo nella realtà viva della sua opera, perplessi eppure fiduciosi, come gli apostoli nel finale del “Vangelo secondo Matteo”, di fronte ad una così grave e lieve eredità.

Giulia Bagnoli
Una vita intera (“un milione di scale”) trascorsa insieme alla donna amata non è abbastanza per il poeta che continua il suo viaggio, ma indifferente e incapace di dare un senso alla quotidianità della vita, con le sue insidie e delusioni. La donna era infatti la sola in grado di cogliere il vero significato dell’esistenza: una capacità che Montale, del resto, affida sempre alla figura femminile. Bello il viaggio (breve/lungo) come metafora della vita che è sempre troppo breve.

Il 22 marzo del 1950 (stessa data della poesia) nel “Diario” Pavese scrive: “Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe essere morta. Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale”. La partenza della donna amata avvicina il poeta al pensiero della morte ed è una morte interiore; una morte dell’anima. Il giorno dopo, sempre nel Diario, scrive: “L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma”. Questo “morire con clamore” preannuncia il reale suicidio del poeta che avverà cinque mesi dopo. Si tratta di una morte scelta e ragionata. Da questo giorno in poi ogni pensiero di Pavese sembra una pianificazione del gesto estremo. Del resto, non è per amore di una donna che ci si uccide, come scrive il 25 marzo, ma perché “un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. C’è forse qualcosa da dire, che non sia una banalità? Personalmente Pavese mi suscita un profondo silenzio.

Alessio Landini
La poesia di Celan domanda alla lingua di continuare a parlare ai limiti del dicibile, parlare e ammutolire. L’intera opera di Celan è questo passaggio attraverso il rischio dell’ estremo ammutolire, esperienza di una lingua chiamata a raccontare un evento che non si può raccontare, un evento che non lo è, che avviene senza avvenire, che accade per portare alla luce la sospensione di senso in cui diventa impossibile qualunque accadere. Questo è soprattutto la poesia di Celan, un “unico, breve istante”.

framo
E’ proprio dal tentare di superare i limiti del discorso, dal cercare di dire “le cose oscure” (“Corona”), altrimenti inesprimibili, che muove la poesia di Celan. Intraprendere la via poetica di un possibile riscatto, per questo straordinario autore, presuppone di porsi sul ciglio del baratro, non negando il “trauma” o “l’ombra” che ci sono capitati in sorte, come individui e come umanità, sforzandosi, anzi, di assumerli con determinazione (come parte della nostra stessa natura), in attesa che qualcosa di buono abbia inizio … nella parola nuova. E ogni volta in cui ci immergiamo nell’immensità dei suoi versi… il miracolo si rinnova.

“Mamm’Emilia”. Privata della vocale finale ed elisa, la parola “mamma”, come per le sue espressioni dialettali, rimane sospesa, indissolubilmente unita al nome proprio di una madre e, direi, a suo figlio. Quanta “carne” e quante “ossa” in un titolo così “latentemente esplosivo”. Tra le parole che “Mamm’Emilia” ha “messo in bocca” a De Luca, l’aggettivo “sfrontata” (da lui utilizzato altrove per definire la bellezza della sua città) non può valere a connotare la poesia di questo grandissimo autore, che, con asciuttezza e incisività – per energia veracemente misurata -, anche qui sprigiona, appieno e quanto basta, la sua straordinaria “forza compressa”.

tristan
Si ripensa, leggendo questi versi di Mario Luzi tradotti da Adonis a quanto scrisse a suo tempo Pasolini recensendo “Onore del vero”. Metereologia dell’anima virata al negativo e soprattutto personaggi che partecipano del racconto come tipi, come astoriche astrazioni.

Con Emily Dickinson siamo ai vertici dell’espressività poetica moderna. Eccezionale, senz’altro tra i primi dieci poeti del Parnaso occidentale. La poesia di oggi ne è un esempio, ma quante altre sarebbero sufficienti da sole a farne la gloria!

Sempre bravo Magrelli, in grado di rendere colloquiale e accessibile a tutti anche il citazionale: come qui, con almeno due allusioni combinate in un titolo, il “ritratto del.. da” e il “saltimbanco”, vale a dire Joyce e Palazzeschi.

Aretusa Obliviosa
Vaga alla disperata ricerca di una boccata d’aria il nostro poeta, Aldo Palazzeschi, così come si anela l’acqua fresca e pura di una fonte. Ma se un’oscura pesantezza e un inspiegabile malessere gli tengono compagnia intorno alla tavola, la fuga in giardino non ha esiti migliori. E della rosa non è tanto lo scollacciato decolté ad infastidire il poeta, quanto il suo essere eccessivamente ciarliera e linguacciuta, non diversamente – a pensarci bene – dalle ben note e odiose beghine che affollano tanti versi di Palazzeschi. Tutto diviene alla fine insopportabilmente sconcio, a tal punto che l’unicavia di scampo dalla natura oscena è come per Perelà il cielo, l’evanescenza di un respiro. Un testo che si potrebbe dire cucito addosso a Paolo Poli, straordinario e incomparabile interprete della leggerezza palazzeschiana, tanto da riuscire a renderne anche la sottile amarezza che si cela dietro all’ironia.

Un paesaggio della desolazione in questi versi di Tozzi, sospeso fra reale e immaginario, che sembra quasi anticipare la ben più tarda scenografia desertificata e surreale della bellissima novella “Il crocifisso”. A sbattere le ali contro questo cielo di carta gli “uccelli neri”, presenze simboliche che in una dimensione onirica di grande suggestione incarnano i “neri pensieri” del poeta, ma anche echi letterari più o meno consapevoli ma certamente possibili e documentabili fra le letture del giovane Tozzi, a metà strada fra il nostrano Carducci e l’americano Poe (come giustamente è stato notato).

Yumiko Nakjima
Questa poesia e’ piena degli elementi tozziani. Io associo lo specchio d’acqua e l’acqua del pozzo (riflette la luna) che e’ espressa in “Con gli occhi chiusi” e nel mondo delle tenebre. Nelle opere di Tozzi e’ espresso il dolore e la perdita di se stesso.

tristan51
“Palazzeschi è assolutamente originale. Egli entra in tutte le zone di tristezza umana: cimiteri, ospedali, conventi, viuzze di città morte, ma dopo aver congedato con una risata ironica tutti i sacri custodi di questi luoghi: Lamartine, Leopardi, Baudelaire, Verlaine, Rodenbach e Maeterlinck. Palazzeschi vive tra le beghine, ma per stuprarle, e si impietosisce, invece, sulle sue care mistiche dame di Villa Celeste. Passeggia di notte nei giardini primaverili, ma per scoprire i mali costumi dei fiori. Entrando in un cimitero, Palazzeschi, cataloga filosoficamente le facce dei morti, contratta uno scheletro e se ne ritorna con un teschio sotto il braccio, mangiando caldarroste nel più nostalgico dei tramonti. L’ingegno di Palazzeschi ha per fondo una feroce ironia demolitrice che abbatte tutti i motivi sacri del romanticismo: Amore, Morte, Culto della donna ideale, Misticismo ecc. L’opera di Aldo Palazzeschi (come quella, pure audacissima, di Corrado Govoni) costituisce gran parte della poesia futurista: la parte distruttrice, quella che G.A. Borgese, conversando recentemente con me a Roma definiva con acume “la critica parodistica del romanticismo” (Filippo Tommaso Marinetti, 1913).

Ogni poesia di Rilke ci cattura, ci spinge e nuovi ascolti, a nuove einterrogazioni e nuove rivelazioni: rilancia la nostra relazione con il fuori di noi, con ciò e con chi pretendevamo già di conoscere a sufficienza e invece solo adesso comincia a illuminarsi, a dirci il suo segreto, le sue possibili forme di condivisione. Grandissimo, tra i più grandi.

Che sapori surrelaisti e che eleganza nelle poesie d’amore di Eluard! E magnifica la lettura da “Capitale de la douleur” incastonata nel film di Godard.

Perdindirindina
Montale ha reso l’uomo contemporaneo consapevole del suo incerto avanzare fra le tante insidie dei suoli di volta in volta melmosi o viceversa disseccati, ma spesso forieri d’angoscia. Ma può accadere anche che, superate le asperità degli “Ossi”, procedendo nel cammino, la maturità della “Bufera” lo riconcili con una natura che può perfino assumere le simboliche sembianze di un’anguilla iridescente, capace di condurre il lettore in “paradisi di fecondazione”, che sembrano ritrovare accenti di classica felicità non dissimili, a distanza di tanti secoli, da quelli del lucreziano inno a Venere.

Erika Olandese Volante
Scollacciata e graziosa, spregiudicata e raffinata, esuberate ed a suo modo pudica… in una poesia come questa si sente più che mai la “vera” voce di Palazzeschi, egregiamente riecheggiata negli accenti del grande Poli.

In questa poesia Di Erri De Luca è racchiuso il mistero dell’amore profondo, carnale, indissolubile fra madre e figlio. Lo stupore della vita che si concretizza nel miracolo dell’uovo dei primi versi e l’incanto della madre-parca, sacra ed immutabile si fondono in un unico essere-poesia, perfetto e completo. La morte, qui, non è che un momento: fra l’essere tutto e il non essere niente vi è solo un diverso tipo di eternità.

m
Rilke aveva davvero il dono di trasformare in poesia tutto quello di cui parlava. Temibile dono, che solo nel tempo imparò a sfruttare al meglio. Tradurre in una lingua romanza questo prodigio di musicalità può sembrare impossibile, eppure il giovane Giaime Pintor ci è miracolosamente riuscito. Il risultato sono due bellezze senz’altro (e giustamente) diverse, ma analogamente sorprendenti e irressistibili.

Caro Aldo Palazzeschi, la strada è ancora in salita, ma vedi che finalmente qualcuno ti capisce?  Che tormento dev’essere stato! Quei due soldi di fama letteraria che ti hanno concesso, ma sulla base di interpretazioni miopi e riduttive, o di accorpamenti grossolanamente affrettati… Questo purtroppo è il prezzo, quando si scrive fuori da ogni schema, quando si è lucidi, sagaci e originali, ma intelligenti e ironici anche nell’anticonformismo.Che ci vuoi fare? Molta gente continuerà a fraintenderti, a non vedere oltre la prima superficie dei tuoi meravigliosi scritti, a non cogliere la tua esuberante, umanissima profondità. Non ti angustiare, però! Come ha detto un tuo più giovane collega, “l’intelligenza non avrà mai peso…”

Pietro Paolo Tarasco
E’ l’albero della vita di Ungaretti, antropomorfo, ferito dalla stessa vita come lo scorrere delle acque dei fiumi che nei loro percorsi incontrano tante insidie. Così ci dice il poeta; è la vita dell’uomo e, poi, c’è lo spettacolo della natura con lo sguardo verso il cielo con la luna che intravede tra le naviganti nuvole o i raggi del sole che assapora disteso fino ad arrivare al buio della notte con lo sguardo verso la terra osservando un fiore ormai privo di petali. Così è la vita!

Elisabetta Biondi Della Sdriscia
Considerata da molti la poesia più bella di Clemente Rebora, “Dall’immagine tesa” è certamente rappresentativa di uno dei momenti più alti della poesia religiosa del secolo scorso. Il contrasto tra fede e dubbio è espresso mediante una sequenza di antinomie, il linguaggio usato è quello dell’amore umano, terreno, che dell’Amore assoluto, quello divino, può considerarsi prefigurazione. E a una prima parte in cui, per tre volte, il poeta ripete di non aspettare nessuno si contrappone simmetricamente la seconda, in cui per sei volte è ribadita la certezza della Sua venuta. Nei due versi finali, che uniti formano un endecasillabo, si scioglie l’attesa nella quasi certezza: ma per poter cogliere la voce di Dio è necessario il silenzio interiore e la volontà di percepirla, perché sarà lieve, un bisbiglio appena, ma tale da riempire il deserto dell’anima, da costituirne il ristoro.

Brevi e frammentate, soprattutto nella prima parte, quasi sussurrate, come ci suggerisce l’allitterazione ripetuta dei fonemi “s” e “p”, sono le parole del poeta, a cui il ripetersi del suono aspro del fonema “r” conferisce anche risentita amarezza. Al ritmo spezzato e franto del verso leopardiano di “A se stesso” si contrappone, però, il suo ripetuto inarcarsi sul verso successivo, quasi a dilatare la validità delle asserzioni fatte, a voler sottolineare il passaggio dalla dimensione personale a quella universale, filosofica. Al poeta resta, amara, la consolazione di aver compreso “l’inganno estremo”, di aver capito che “ascoso, a comun danno impera” un’entità malvagia (Arimane?) e che “Al gener nostro il fato / non donò che il morire”. Ora può distaccarsi da tutto e da tutti. Sconsolato, ma immenso.

Giacomo Trinci ha saputo sostanziare la sua poesia di contenuti nei quali il lettore attento può scorgere, in filigrana, modelli ineludibili della nostra poesia di Otto e Novecento, ma su di essi ha innestato una sensibilità profonda nella quale scorgo tratti di grande originalità. Come in questa lirica, che trovo bellissima e non mi stanco di leggere e rileggere, in cui nessuna parola è di troppo e il dolore, composto e virile ma dilaniante, è tutto in quell’alternanza efficace di presenti e imperfetti che si avvicendano chiasticamente, tra ricordo e presente, prolungando nel presente la presenza (“ogni giorno è da qui vive con me”) e riverberando sul passato il dolore (“Si sentiva più stanca”; “era stanca, diceva sempre più”). Tutto ciò che è stato si riassume alla fine nel “morso asciutto” del dolore, una condizione di disarmonia interiore che Trinci esprime magnificamente utilizzando, per ben due volte nel giro di pochi versi, l’anacoluto, facendo irrompere, cioè, nell’armonia del verso la disarmonia del reale. Vorrei sottolineare, infine, l’originalità dell’incipit: la poesia comincia ex abrupto con un discorso a metà, come il mancato utilizzo della maiuscola sottolinea, quasi facendo ricorso ad una tecnica cinematografica. Spero di poter conoscere di persona questo grande poeta.

Giacomo Trinci
Le quartine di Tozzi si svolgono in una musica irta e difficile, in una melodia impervia. La prima quartina è fitta di similitudini forti ed esplicite, come a negare ogni facile analogismo. Poi, improvvisamente, come da niente, ecco la terza quartina con quell’Eva con Adamo che emergono in primo piano, forzati alla violenza penosa di quell’anima lontana che preme e riporta l’antica immagine biblica. Rara potenza dell’evocazione e vertigine lirica di un poeta dal dantismo congenito.

Pasolini credeva in una lingua di verità continuamente inseguita, sfiorata, riperduta; questa sete di purezza aveva origine nella poesia; per questo quando anche da parte di stimati intellettuali e poeti si è parlato di un Pasolini “poeta senza poesia”, bisognerebbe precisare meglio la questione,alludendo al fatto che, proprio il fatto di possederla come sguardo originario sulle cose, sul mondo, costringeva il poeta stesso adassumerla come orizzonte verso il quale continuamente tendere: come un vero credente, appunto, che non ozia pacificamente in una fede ricevuta una volta per tutte, ma la reinventa ogni volta, la perde sempre. Il canto friulano iniziale è solo la veste prima di un percorso continuamente problematizzato, indagato, discusso; ma sempre da quella originato: dal linguaggio “troppo difficile e troppo facile” della poesia, appunto.

Geniale rovesciamento di ogni rigida opposizione Natura-Artificio. Il giovane incendiario Palazzeschi, all’avanguardia di ogni avanguardismo ideologico in attesa di museificazione, resta intatto nella propria nudità irriverente, anarchica, portando il contrasto, il dialogo, nell’universo monologico della lirica e della poesia. insuperato maestro fanciullo di invecchiate generazioni di giovani, che trova nella voce dell’incendiario Paolo Poli, mai diventato pompiere, l’irriducibile correlativo oggettivo e la vera incarnazione poetica.

Erika Olandese Volante
Come finire meglio questa torrida estate se non con con il brivido freddo sapientemente indotto da Cesare Pavese… sbattono due fiammeggianti ciglia nere ed ecco il vento che dona un attimo di voluttuoso terrore. Un susseguirsi di immagini indimenticabili: la morte-sensuale compagna, la vertigine del silenzio sospeso, la figura della Speranza che maternamente (e simbolicamente, perché non posso fare a meno di scorgere la “maniera” otto-novecentesca di rappresentare il tema) si china sul proprio riflesso… Godendoci questo letterario videoclip d’autore, viva Pavese! E buon fine estate a tutti

La carta 0, il Matto. L’abisso, l’orrore della follia… o la speranza, il ribaltamento. La creatura tanto umana da risultare divina, il Re nascosto sotto le spoglie del mendicante. La carta 0, il Matto. Si dissolve fra i liquidi salmastri prodotti dal suo stesso corpo fino ad essere niente, o il Tutto più sublime. Giacomo Trinci ci restituisce un archetipo antico e gli dà corpo, carne, odore.

Greta
Incompreso intellettuale del dissenso, profeta in patria. A ribadirlo qui un gioco dʼallitterazione, ma a quarantʼanni da quellʼIdroscalo di Ostia, ancora oggi non ci restano che il ricordo e la memoria, forse gli unici, soli, passaporti per lʼimmortalità. Dʼaltronde, è stato proprio lo stesso Pasolini a trascendere, nei pochi anni che gli sono stati concessi, qualsiasi dimensione spazio-temporale, squarciando archi temporali sbalorditivi. Chi meglio di lui ha saputo predire, e dimostrare, come lʼomologazione della rampante economia capitalista (forse il vero “fascismo” della nostra epoca) sia capace di distruggere lʼuniverso interiore degli uomini esattamente come quello esteriore?
Per me resta, ad oggi, la più grande dimostrazione di come il talento, ma soprattutto la verità, non abbiano schieramento politico. Perché, ancora una volta, «La morte non è nel
non poter comunicare, ma nel non poter più essere più compresi».

m
Dove sarebbe la nostra poesia senza Catullo? Ma pare che una donna di Lesbo, perdutamente innamorata, gli rispondesse con queste parole: “…Subito a me / il cuore si agita nel petto / solo che appena ti veda, e la voce / si perde sulla lingua inerte. / Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, / e ho buio negli occhi e il rombo / del sangue alle orecchie. / E tutta in sudore e tremante / come erba patita scoloro: / e morte non pare lontana / a me rapita di mente” (la traduzione è sempre di Quasimodo)

Niente da fare, qui siamo ai vertici.  E viene da pensare: perché Carlo Betocchi è così poco (ri)conosciuto? Questi settenari eleganti ma dimessi, belli perché nudi, sarebbero potuti uscire dalla penna di Giacomino. Pensiero e parola, più che perfettamente sovrapposti, qui sono fusi: e il risultato di questa alchimia non si saprebbe immaginare in forma diversa; l’uno dà vita all’altra, ma senza toglierle spazio, procedendo con una grazia dolcissima e severa che s’incide nei precordi lettore.

“E lo stesso conoscere l’irreparabile vanità e falsità di ogni bello e di ogni grande è una certa bellezza e grandezza che riempie l’anima, quando questa conoscenza si trova nelle opere di genio. E lo stesso spettacolo della nullità, è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l’anima del lettore […]. […] il sentimento del nulla, è il sentimento di una cosa morta e mortifera. Ma se questo sentimento è vivo, come nel caso ch’io dico, la sua vivacità prevale nell’animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e l’anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria”. (“Zibaldone”, 260-1)

Aretusa Obliviosa
Credo che Dino Campana abbia capito quanto sia difficile cantare la magia della notte senza attingere alla lunare vaghezza leopardiana e ai misteriosi tintinnii pascoliani. Eppure rimane inconfondibile l’impronta del poeta di Marradi, quel suo procedere cantilenante, quella sua ispirazione moderna e al tempo stesso antica, oracolare. Concordo con Tristan: il finale è un vero e proprio dono.

Pasolini è quanto di più sconvolgentemente attuale il nostro Novecento ci abbia dato. Eppure in lui l’urgenza del presente e la nostalgia del passato convivono mirabilmente in una poesia a volte volutamente dissonante altre volte formalmente solenne e classica. Un po’ come lo stesso Pasolini, scandaloso e amante della tradizione al tempo stesso. Nelle Ceneri c’è un paesaggio di colori acidi e di fosforescenti, di consistenze marcescenti e umide, evocatrici di certe tavolozze baudelairiane e decadenti. In questi paesaggi il vizioso garzone non fa che ribadire un’incolmabile distanza rispetto al leopardiano “garzoncello scherzoso”, così come le urne abbandonate in cimiteri di umidi sentori non possono non rimandare per contrasto alle urne illustri eternate nei “Sepolcri” foscoliani. Immerso in questa onirica realtà il poeta stesso, prigioniero dell’ennesimo ossimoro, quello della propria condizione, della propria esistenza, amando il mondo che odia, nello scandalo della propria contraddizione. Ed è con uno sguardo epicamente contemporaneo sulle forme della terra che ci è madre e patria che PPP conclude il suo novecentesco poema. Credo che nessun contemporaneo più di PPP abbia lo spessore di un classico.

Seguici anche sulla Pagina Facebook del Premio Letterario Castelfiorentino

ARCHIVIO POST PRECEDENTI

Le ultime NOTIZIE DI POESIA

NOTIZIE DI POESIA 2012 , NOTIZIE DI POESIA 2013 , NOTIZIE DI POESIA 2014NOTIZIE DI POESIA 2015