VEDI IL VIDEO “Congedo del viaggiatore cerimonioso” letto da Roberto Herlitzka , Giorgio Caproni legge “Ultima preghiera” , Dai “Versi livornesi”Parola e espressione

Firenze, 7 gennaio 2016 – Ricordando che il 7 gennaio 1912 nasceva a Livorno Giorgio Caproni.

Fu bello tempo fa parlare di Giorgio Caproni, «chiacchierare» – a Firenze, nella città dove il poeta incontrava Luzi e Betocchi – di un suo libro intitolato Era così bello parlare, in cui erano stati raccolti i testi di quattro sue conversazioni radiofoniche risalenti al 1988.

Un pomeriggio alla Sala degli Specchi di Palazzo Vivarelli Colonna, con Luigi Surdich, Franco Contorbia e un pubblico particolarmente attento, ed è già ricordo, con l’ingrediente oltremodo attinente al discorso della poesia, della memoria: della sua capacità, tramite le parole della poesia e quelle attorno ad essa gravitanti, di rendere bello e vivo ciò che è stato, di conservarne e potenziarne gli attributi di realtà su scenari irripetibili, ormai deserti e sostituiti da un altro presente, con le sue voci e i suoi significati, aleatorio e instabile come un paesaggio visto dal treno e tuttavia di nuovo assaporabile, su cui riflettere, magari in compagnia di un altro grande poeta che con Caproni ha molto a che fare: Leopardi.

Sì, fu bello: quasi un dono protratto, prolungabile in assenza, in cui la nostalgia si annulla. Grazie al libro che un capronista di vaglia come Surdich aveva allestito per le edizioni genovesi del «Melangolo», l’affabilità del poetare di Caproni era tornata a farsi intrattenimento, conversazione a margine, ma era rimasta discorso intrinseco. Le parole era in molti casi le stesse, la sintassi, il fraseggiare e il suono complessivo, le impuntature precisanti e gli incisi, addirittura le sospensioni e i silenzi restituiti sul filo di un’oralità trascritta, erano gli stessi: fino a trasformarsi in quintessenza fisionomica, in tratti di riconoscimento.

Erano gli stessi, d’altra parte, i significati inseguiti, cacciati da un’ispirazione implacabile, scritti davvero per forza, per rimediare alla povertà dell’essere al mondo, per consentire con meraviglia, di quel mondo, la sopravvivenza o la stupita riabilitazione di un attimo. Un attimo di schiarita oltre il tempo e i confini dell’io, e parole destinate, in caso di riuscita, a coincidere con la vita, a doverne costituire in blocco la testimonianza, vivida e necessaria nella sua essenzialità chiamata al dunque, soggetta agli ultimi accertamenti: come i tesori nel fagotto di Annina, la madre di Giorgio nei Versi livornesi, anche lei in viaggio, bloccata tra i fumi di un metafisico bar di stazione, confusa, piangente, senza parole, ma nell’intimo – forse aiutata da un semplice bigliettino di raccomandazioni che come altre volte ha lasciato sul tavolo di cucina assentandosi da casa, forse soccorsa dalla poesia di un figlio che (la poesia meglio di Freud sa dirlo) è il suo fidanzato e la resuscita – non in balia del nulla.

Scriveva Pasolini, un altro poeta in viaggio buio e iridescente, il poeta della «disperata vitalità» faccia a faccia con il poeta della «disperazione calma»: «Anima armoniosa, perché muta, e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa». Ed è davvero così. La figura e l’opera di Caproni valgono a non farci perdere la vita: anzi, sono qui a tal punto da farci dire, sottraendoci agli indugi dei verbi al passato e alle angustie desideranti che inevitabilmente ogni bel ricordo porta con sé, che è ancora bello stare con te, Caproni, è così bello sentirti parlare.

Marco Marchi

Congedo del viaggiatore cerimonioso

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.

(Scusate. E’ una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare. Ecco.
Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, son certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

Giorgio Caproni 

(da Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee, 1965)

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