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Firenze, 23 gennaio 2016 – Ricordando che il 23 gennaio 1899 nasceva a Torino Carlo Betocchi.

I teorici della letteratura lo chiamano l’«avantesto» ed essendo ciò che precede un testo e nel contempo lo determina, quell’insieme di meccanismi, modalità ed occorrenze che sovrintendono alla sua configurazione definitiva e insieme alla sua più remota origine, può identificarsi anche con ciò che comunemente si dice, senza dover ricorrere a impegnativi tecnicismi da linguaggio speciale, l’ispirazione.

Molti poeti, del resto, hanno amato fornire indicazioni su come in loro si produca la poesia, in che modo in loro si presenti, si faccia strada e richieda soddisfazione, obbedienza. Indicazioni e attestazioni quanto mai varie e divergenti, a vantaggio talvolta del senso, talvolta del suono (penso al Pasolini casarsese folgorato da una parola sentita pronunciare come «rosada»; penso al Valéry di Le Cimitière marin, alla sua certificazione circa un irresistibile richiamo metrico, ritmico-accentuativo preciso, di valore primario), che quella misteriosa danza e controdanza in atto tra significante e significato implica.

Anche il grande Carlo Betocchi ha raccontato come in lui la poesia prendesse forma, come di volta in volta, testo dopo testo, miracolosamente si realizzasse, e lo ha fatto affidando la sua testimonianza ad stupefacente prosa dal titolo Diario della poesia e della rima, apparsa come una sorta di postfazione o allegato prezioso che dir si voglia a un suo libro tardo, cronologicamente diffuso e compendiario: Poesie del Sabato, pubblicato per le cure di Sauro Albisani nella prestigiosa collana dello «Specchio» di Mondadori nel 1980. Nel fare questo, parlando di poesia, Betocchi restava magnificamente poeta: quel poeta da «anima di tutti» che la sua poesia rigorosamente umile e creaturale, dai lontani tempi del debutto di Realtà vince il sogno a quelli degli ultimi versi, ha sempre rappresentato, ascoltato e cantato.

Ecco allora un breve estratto dal Diario della poesia e della rima che, cogliendo il punto in cui l’ispirazione si materializza in suoni e accenti, parole e immagini, produce anche – proprio nel registrare la fenomenologia di quel misterioso processo generativo – altra poesia: un’altra, per dirla con il linguaggio di Betocchi, «vicenda di parole».

Leggete, giudicate e dite se non è così. E dite anche se Carlo Betocchi,  perfino in una prosastica e strumentale dichiarazione a margine della poesia come questa, si riveli o no con i suoi tratti di riconoscimento più propri: tratti  inconfondibili che, nonostante i fraintendimenti e le dimenticanze che colpevolmente gravano sulla  sua opera, consentono di identificarlo con assoluta sicurezza come un poeta tra i massimi che il Novecento italiano può vantare.

Marco Marchi

Da Diario della poesia e della rima

Tu hai nel petto un garbuglio di cose che ronzano come un’arnia d’api al lavoro. S’apre uno spiraglio nell’arnia; il capo del verso, come un’ape d’oro, appare, sull’orlo, fremente, sta per spiccare il volo, e sdipanare il garbuglio dello sciame. E a un tratto, in quel deserto, appare un fiore giallo, a sinistra, lontano, poi un altro, ma sembra vicino, ed è rosso, sulla destra. Sono apparizioni che sorprendono il poeta: e che fantasticamente si replicano. Altro rosso, altro giallo, e un violento azzurro punteggiano il deserto: e son parole che contengono un nesso segreto, quasi mostruoso, con quello che vuole il poeta, il suo discorso che ronza, lo sciame che vola. Quello che era intenzione del discorso si eleva ad altra potenza correndo a investire questi suggerimenti di colori ritmati che moltiplicano secondo il bisogno le loro apparizioni, le loro corrispondenze.
E il discorso che era tutto dentro l’arnia sta ormai sciamando a precipizio con l’ardente sua fame verso i richiami dei fiori che sbramano la sua passione di impossessarsi di una ragione sconosciuta.
Ogni fiore era una rima, ed ora capisco che ognuno di essi conteneva un potenziale che il poeta non inventava da sé, ma che rispondeva, come predisposto, alla supplica ardente di quella fame compressa.
Chi ha assistito a questa vicenda di parole che s’appostano lontano a creare la danza ancora insospettabile della poesia rimata, sa benissimo che da solo non ce l’avrebbe fatta. Una grande carità è scesa verso la fame d’esprimersi che lo divorava. 

Carlo Betocchi 

(Diario della poesia e della rima, in Poesie del Sabato)

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