Firenze, 31 gennaio 2016 – Trionfa il post anniversario Buon compleanno, Federigo Tozzi!. Una vera e propria acclamazione alla quale quasi inevitabilmente partecipano studenti vecchi e nuovi che hanno conosciuto sotto la mia guida il grande scrittore senese durante i loro studi universitari, in corsi monografici seguiti o in tesi di laurea realizzate (quest’ultime, in non pochi casi, trasformatesi poi, per la loro originalità e per il loro intrinseco valore critico, in pubblicazioni). Tozzi è un grande scrittore e una volta che lo si incontra e si decide di affrontarlo seriamente non manca di diventare un nostro autore per la vita, uno scrittore del quale continueremo nel corso degli anni a sentire il bisogno. Provare per credere!

L’acclamazione si specifica in una serie di commenti molto pertinenti ed incisivi, tra cui sobriamente scegliamo, non senza qualche imbarazzo, quelli di tristan51 e Perdindirindina, e quello singolarmente perentorio e schierato (ma sulla scia o perlomeno in sintonia con un autorevole giudizio firmato nientemeno che Mario Luzi, che Elisabetta Biondi della Sdriscia per suo conto ricorda) Matteo Mazzone. Rispettivamente: “Federigo Tozzi è un autore ‘difficile’, senz’altro al di sotto del suo valore presso il grande pubblico, soprattutto perché è un grande pessimista, novecentescamente debitore della lezione di Leopardi. Scrittore senza consolazioni, Tozzi invita, come Svevo e come Pirandello, all’attraversamento e all’interrogazione del ‘non senso’ della nostra esistenza. Tuttavia, a differenza dei suoi congrui e straordinari compagni di strada, Tozzi rifiuta qualsiasi instaurabile complicità fra autore e lettore. Amaro come Svevo e ineccepibile come Pirandello, Tozzi non ci fa mai sentire ‘intelligenti’, ma si limita a mostrarci come in realtà stanno (come in realtà inesplicabilmente, tragicamente stanno) le cose della vita. E questo piace poco”; “Nell’incipit del ‘Podere’ e nei due protagonisti, padre e figlio, c’è tutto il dramma di Tozzi. Un figlio desideroso di essere riconosciuto tale, poiché solo dal padre può essere legittimata la propria identità. In gioco c’è un’eredità che sarebbe limitativo ridurre alla ‘roba’ verghiana, ma che acquisisce in questo caso il valore simbolico di un’investitura, un riconoscimento appunto. Eredità alla quale Federigo-Remigio anela per uscire dal cono d’ombra in cui adesso è confinato“; “Tozzi è il più grande narratore del primo Novecento: senza se e senza ma. Il rinnovamento del romanzo italiano sta proprio dietro la sua opera di costruzione sistematica di uno scritto propulsivo: uno spartito assieme vociano ed espressionistico che mescola, alla poetica del frammento autobiografico, quella allucinata visionarietà di sapore campaniano che lo porta a strutturare e a disseminare le sue opere di immagini forti, agghiaccianti, terribili e temibili: il finale de ‘Il podere’ testimonia la lucida inquietante tragicità di un uomo, il protagonista Remigio, colpito da una morte più che esemplare: di tutte le morti possibili, è proprio quella decapitazione con l’accetta dello stesso Berto ad essergli fatale. Una morte tanto stupida quanto in grado di lasciare il lettore ad occhi sgarrati, rapito in un incubo surreale, da mettere in relazione intratestualmente (ed intertestualmente) colle maggiori opere tozziane. Tozzi va letto d’estate, al mare, sotto il sole: si stempera meglio così il suo essere tragico-distruttivo“. Non possiamo esimerci dal segnalare, tuttavia, anche i commenti particolarmente significativi e graditi pervenuti al blog da parte della nipote dello scrittore, Silvia Tozzi, e da una studiosa giapponese del grande Federigo, Yumiko Nakajima, o questo, lapidario quanto giusto, di Marco Capecchi: “La morte del padre come epifania: la grandezza di uno scrittore risiede nella capacità di proporre nuovi temi ad ogni (ri)lettura. Tozzi appartiene alla schiera dei grandi scrittori“.

Il podio di gennaio si completa magnificamente con due ex aequo: argento agli italiani Pavese e Sbarbaro (Pavese e le voglie di Gella e L’anima silenziosa di Camillo Sbarbaro), bronzo agli stranieri (e che poeti stranieri!) Rilke e Verlaine (Rilke e il tacito amico e Mano nella mano. Paul Verlaine).

Al prossimo mese, a domani.

Marco Marchi

Buon compleanno, Federigo Tozzi!

VEDI I VIDEO La vita e le opere: “Tozzi, la scrittura crudele” , Scene da “Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi (1994) , Passeggiata tozziana

Firenze, 2 gennaio 2016 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della nascita di Federigo Tozzi (Siena, 1 gennaio 1883), e ricordando due libri tozziani pubblicati di recente dalla casa editrice Le Lettere, ambedue a mia cura: un’antologia di novelle e una raccolta di saggi, rispettivamente Venti novelle e Federigo Tozzi. Ipotesi e documenti. Ancora a mia cura e ancora per i tipi de Le Lettere, il romanzo Il podere.

Il podere comincia laddove Ricordi di un impiegato – soprattutto nella loro primissima redazione, in cui chi è ammalato e presumibilmente morirà è il padre del protagonista e non una fidanzata di nome Attilia – finiscono: «Nel millenovecento, Remigio Selmi aveva vent’anni; ed era aiuto applicato alla stazione di Campiglia. Da parecchio tempo stava in discordia con il padre e non sapeva che al suo piede bucato da una bulletta delle scarpe era ormai venuta anche la cancrena. […] / Ma una sera ricevette una cartolina dal chirurgo che lo curava; nella quale era scritto che la malattia non dava più a sperare. / La fece leggere al capostazione; ed ebbe il permesso di partire subito, con il diretto che era per passare».

Attenzione! Quel biografico «piede bucato» foriero di morte aggetta già su cristologici scenari da Golgota, anima ed inconscio tornano per chi scrive, per via di cultura, a convergere, a saldarsi. Alla puntualità di una prosecuzione meramente cronologica fa in realtà riscontro il senza-tempo di una storia segreta, protratta da sempre, radicata nel «profondo»: un rapporto esistezialmente fondante e che ne determina tutti gli altri; un tema privilegiato, categorialmente assunto ed assolutizzato, di cui tuttavia l’intera opera di Tozzi si impegna a cogliere le più sensibili articolazioni interne, rigorosamente registrando – assieme ad impossibilità e immutabilità – opposizioni e contraddizioni, simultaneismi e sincretismi. Dominano le imprevedibilità soggioganti dei «misteriosi atti nostri», di quegli atti legati a insindacabili pulsioni inconsce che altrove Tozzi, sostenuto da un’ampia cultura psicologica pervenuta perfino a informazioni di tipo freudiano, definisce «movimenti determinati da cause ignote» (La conscienza, in Barche capovolte).

«Perché fare i figliuoli crocifissi?», aveva scritto Tozzi a Emma, allora sua fidanzata, in una delle bellissime lettere di Novale (20 ottobre 1907). Già in Con gli occhi chiusi quella onnicomprensiva forma di pietas leopardianamente emancipatasi dalla rappresentazione di supplizi risulta oltremodo efficiente, tanto da annettere al suo interno, senza preclusioni e resistenze, la figura stessa di Domenico (Dominicus, l’uomo di Dio) quale appare sul finire del romanzo: un despota desautorato, irriconoscibile, patetico, più che mai imprendibile e misterioso, costretto – lui detentore del comando, il Dio che tutto può e tutto vede per un Pietro mai diventato adulto ma che in quel momento crede di poterlo diventare – a tacere, a doversi distrarre. «Seduto su la sedia che gli serviva da più di vent’anni – è uno dei bellissimi paragrafi conclusivi del romanzo –, lo seguiva con lo sguardo tenendo le mani in tasca dei calzoni e appoggiando al muro il capo già calvo. Ma non diceva niente, procurando di distrarsi con i servi e con qualche cliente che andava a salutarlo».

Una sorta di scomparsa anticipata del terribile padrone della luce che Domenico fu, una sorta di morte pregressa, che è, insieme, l’addio vendicativo e commosso, illusorio e forse del tutto presunto, di Pietro all’infanzia lasciata alle spalle. Ghìsola non sarà in grado di svolgere alcuna funzione di riscatto, l’ingresso di Pietro nel mondo degli adulti si rivelerà di lì a poco (traumaticamente, con il ritrovamento della ragazza a Firenze, incinta di un altro uomo e avviata alla prostituzione) un’illusione: «Ma le nostre vicende intime – come si legge nell’ermetico e poco noto poema in prosa giovanile Paolo, risalente al pari dell’atto unico L’eredità all’indomani della morte del padre – sono inevitabili. La conscienza è la resistenza che opponiamo loro».

Il cerchio perfetto che Tozzi e l’enigmatico padrone della luce hanno voluto si infrange e subito si ridisegna: il dialogo che continua – muto, notturno, del tutto interiore e implacabilmente necessario – si riconferma quello tra padre e figlio: «Spenta la candela – è ancora Pietro che pensa di poter abbandonare la sua vecchia vita –, si voltava dalla parte del muro e dormiva. / Domenico, verso la mezzanotte, attraversava la camera, con in mano la lucerna di ottone. E allora Pietro si destava e gli veniva voglia d’alzare il capo. Ma l’altra porta si richiudeva; ed egli rimaneva con quello scontento di quando è interrotta una disposizione d’animo».

È la prima e l’ultima notte di Pietro Rosi, «con gli occhi chiusi», ma con la riconfermata consapevolezza – come ancora in Paolo si notava – che «V’è un gran segreto dentro di noi. E ci affacciamo in vano su l’abisso. Le tenebre prendono i nostri occhi». Da qui – dimentichiamoci pure tutto il resto – Tozzi ricomincia a narrare, con Remigio Selmi al cospetto di un sorprendente, davvero estremo camaleontismo del padre, oppure al cospetto della verità: al capezzale di un padre che morendo si fa Gesù, un sofferente e assetato Cristo in croce, un figlio di un altro padre.

Marco Marchi

Da “Il podere”

Arrivò alla Casuccia la notte: tre miglia da Siena, fuor di Porta Romana; e, trovato l’uscio aperto, entrò nella camera del padre senza che prima nessuno lo vedesse. 
Giacomo era desto e appoggiato a quattro guanciali; mentre due delle assalariate, Gegia e Dinda, gli sostenevano le braccia lungo la coperta, attente a mettergliele in un altro modo quando non poteva stare più nella stessa positura. Sopra il canterano, una lucernina di ottone; con tutti e quattro i beccucci accesi. 
Remigio salì in ginocchio sul letto. Ma Giacomo, che aveva la testa ciondoloni sul petto e gli occhi chiusi, non se ne accorse né meno. Allora, gli chiese: 
«Non mi riconosci?» 
Dinda disse sottovoce: 
«Lo lasci stare, padroncino! Soffre troppo e non le può rispondere.» 
«Mi risponderà, spero.» 
«Ha fatto male ad entrare senza avvertire.» 
Ma Remigio non badò a quel rimprovero; e disse, sebbene sapesse che non gli credevano: 
«Vorrei che mi riconoscesse.» 
Giacomo alzò, a poco a poco, faticosamente, il volto; e guardò il figlio ma non se ne fece caso: le sue labbra si erano affloscite e screpolate, deformando la bocca; gli occhi non erano più neri; ma, con le sclerotiche gialle e segose, le pupille parevano vizze. Le mani, che le due donne  avevano lasciato, appoggiate dalla parte del dorso e aperte, cercavano di chiudersi senza riuscirci. 
Remigio, perché non lo brontolasse di essergli andato così vicino, gli chiese un’altra volta, pur non avendone più voglia, per quell’indifferenza che, a rivederlo, gli era tornata: 
«Non mi riconosci?» 
Il malato, come se avesse voluto fargli capire che non gliene importava nulla, rispose: 
«Non ti devo riconoscere? Non sei Remigio?» 
E ricominciò subito a gridare. Allora, le due donne lo voltarono di fianco, strascinandolo in proda. 
«Quanto soffro! Così non posso stare! Alzate le coperte!» 
In quel mentre entrò Luigia, la sua seconda moglie: prima, si era fermata ad ascoltare il figliastro; e, senza salutarlo, ficcò le mani sotto le lenzuola per tenerle alzate. 
«Mettetemi le gambe fuori del letto!» 
«Ti farà freddo.» 
«Non importa: obbeditemi.» 
Allora, Gegia e Dinda gli cavarono le gambe fuori del letto, con i due piedi gonfi e fasciati 
che avevano un esasperante e triste odore d’iodoformio. Quell’odore toccò l’animo di Remigio. Luigia esclamò: «Poveretto! Tu, Remigio, non hai visto le sue gambe sfasciate!»
Gegia fece un gesto di orrore; Dinda si asciugò gli occhi. Allora, Remigio appoggiò la testa ai ferri del letto e stette zitto; mentre quel che facevano dinanzi a lui gli pareva di vederlo da tanto tempo. 
Giacomo era abbastanza ricco. Nato da un fattore, che gli aveva lasciato circa ventimila lire, era riuscito a triplicarle. Mortagli la moglie, madre di Remigio, prese con sé una ragazza di campagna facendola passare per serva. Poi, per mettere in pace i pettegolezzi, sposò Luigia, che allora era una zitella piuttosto matura: doveva ereditare un poderetto ed era stata la sarta della prima moglie. Prese anche, perché gli avrebbe fatto comodo, la figlia d’una sua nipote: aveva, allora, dodici anni e si chiamava Ilda. 
La sera stessa del matrimonio, Luigia si raccomandò a Remigio di volerle bene e di dirle tutta la verità delle chiacchiere che si facevano; e il figliastro le confermò i sospetti su Giulia. Ella pianse e si fece promettere da Giacomo che l’avrebbe mandata via; ma, invece, dopo pochi mesi, Giulia prese sempre di più il sopravvento; e Giacomo si divise di letto dalla moglie. 
Ma come poteva piacergli quella ragazza? Magra e gialla, quasi rifinita; con i denti guasti e lunghi; un’aria stupida e gli occhi del colore delle frutta marce. E, a venti anni, già vecchia e logorata. 
Erano più di sette anni che Remigio la sopportava; ma, sempre di più, la sua avversione cresceva; e, d’altra parte, l’odio di Giulia faceva altrettanto; perciò quasi tutti i giorni, Giacomo e Remigio questionavano. Alla fine, il figlio dovette andarsene; e, dopo aver patita anche la fame, era riescito ad avere quel piccolo impiego. 
Tali cose, con la sonnolenza e la stanchezza, gli ritornavano a memoria, rapidamente; mentre pareva che il moribondo non lo vedesse né meno. Allora, si scostò dal letto; e si mise a sedere nell’ombra che faceva una scatola vuota accanto alla lucernina. 
Una grande tristezza lo invase, sentendo confusamente quanta ambiguità gli era attorno; e come, tra qualche giorno soltanto, egli si sarebbe trovato a contrasti violenti e insoliti. 
Infatti, Giacomo aveva promesso a Giulia di lasciarle tutta la parte del patrimonio che la legge avrebbe consentito di togliere al figlio. 
La ragazza, quand’egli senza rimedio peggiorò della gamba, portò via, aiutata dalla zia, quanto le fu possibile: lenzuola che non erano state adoprate mai, strumenti agricoli, il letto dove avrebbe dovuto dormire Remigio, le posate, i gioielli della prima moglie, i vestiti; e vendé perfino tre botti piene. 
Luigia, che s’avvedeva soltanto in parte di queste cose senza avere mai il coraggio di verificare i suoi sospetti, anche per paura del testamento, seguitava a non dirne parola, obbedendo anzi a Giulia; specie quando il suo dolore sincero le fece perdere la testa. 
Remigio, sentendosi straziare, e vergognandosi di non saper far niente, si alzò; riuscendo abbastanza ad essere calmo, perché voleva comportarsi come se tra lui e suo padre non fosse accaduto mai niente. E, non avendo incontrato Giulia, ne provò quasi piacere; quantunque indovinasse che ella stessa non aveva voluto farsi vedere. 
Egli aveva gli occhi di un castagno chiarissimo e limpido, che non somigliava a nessun altro, quasi sbiadito; qualche volta, pareva che tremassero e si accendessero come quelli dei conigli. I baffi, meno biondi dei capelli, d’un colore bruciato, erano attaccati con le punte alle guance; il mento un poco tondo e forato nel mezzo. Il suo viso, quasi sempre rassegnato, era ora doventato febbrile. 
Non stava più a capo basso, e gli sussultavano i muscoli della mandibola. Si riavvicinò al capezzale, e disse al padre: «Tornerò domattina.» 
Gegia rispose, in modo molto significativo, a cui egli non fece caso: 
«Lo assistiamo noi.» 
Giacomo, guardatolo appena, gli disse, come se non ce lo volesse: 
«Addio!» 
Remigio, allora, rientrò in città, e dormì ad un albergo.

Federigo Tozzi 

(da Il podere)

I VOSTRI COMMENTI

m
Qualche auspicio per il 2016: che l’attenzione a Tozzi, davvero uno dei massimi scrittori del Novecento, continui ad aumentare in Italia, ma anche all’estero; che si riconosca la moderna, imprescindibile grandezza della sua negatività e l’acutezza del suo sguardo; che sempre più persone si rendano conto di come leggere Tozzi equivalga, per dirla con Luigi Baldacci, a confrontarsi instancabilmente con «il mostro che c’è in noi».

tristan51
Federigo Tozzi è un autore “difficile”, senz’altro al di sotto del suo valore presso il grande pubblico, soprattutto perché è un grande pessimista, novecentescamente debitore della lezione di Leopardi. Scrittore senza consolazioni, Tozzi invita, come Svevo e come Pirandello, all’attraversamento e all’interrogazione del “non senso” della nostra esistenza. Tuttavia, a differenza dei suoi congrui e straordinari compagni di strada, Tozzi rifiuta qualsiasi instaurabile complicità fra autore e lettore. Amaro come Svevo e ineccepibile come Pirandello, Tozzi non ci fa mai sentire “intelligenti”, ma si limita a mostrarci come in realtà stanno (come in realtà inesplicabilmente, tragicamente stanno) le cose della vita. E questo piace poco

Perdinidirindina
Nell’incipit del “Podere” e nei due protagonisti, padre e figlio, c’è tutto il dramma di Tozzi. Un figlio desideroso di essere riconosciuto tale, poiché solo dal padre può essere legittimata la propria identità. In gioco c’è un’eredità che sarebbe limitativo ridurre alla “roba” verghiana, ma che acquisisce in questo caso il valore simbolico di un’investitura, un riconoscimento appunto. Eredità alla quale Federigo-Remigio anela per uscire dal cono d’ombra in cui adesso è confinato.

Daniela Del Monaco
In Tozzi, a differenza di Svevo, il motivo religioso e l’ottica sacrificante sono molto forti. La storia di Remigio Selmi del “Podere” è, infatti, quella di un povero Cristo che, consapevole, va verso la sua morte, proprio come Cristo si consegna a coloro che lo uccidono. Il crocifisso per Tozzi non è prospettiva di redenzione, anzi, l’uomo rimane “inchiodato” alle proprie domande e ai propri perché. Remigio-Tozzi somiglia a Cristo solo nel momento umano della sofferenza, dato che per lo scrittore il Dio è quello vetero-testamentale, malevolo, terribile e invidioso dell’uomo. Un Dio che non salva e non resuscita.

framo
Il punto di vista di chi si consuma “all’ombra di una scatola vuota” come unica possibilità di mettere a tacere l’ambivalenza dei propri moti interiori (eccesso di rabbia repressa e riemersa nel ricordo, insensibilità indotta da anni di paterna indifferenza, autenticiità di slancio – condensata in quel “vorrei che mi riconoscesse”, pronunciato una volta salito in ginocchio sul letto, con atto più o meno inconsapevolmente implorante e penitente). E’ il punto di vista che il figlio sembra costringersi ad assumere nel tentativo di conservare un equilibrio almeno apparente, perché sul “suo viso, quasi sempre rassegnato, (…) ora doventato febbrile” non si imprimano i tratti della follia (il dolore sincero, come già accaduto alla matrigna, fa perdere la testa) o dell’ipocrisia che gli preme dentro, e che vede e sente attorno, prima e dopo l’ennesimo, estremo rifiuto, con il rischio di perdere la limpidezza di uno sguardo – “quasi sbiadito”- “che non somigliava a nessun altro”. Testo durissimo e ostico da cogliere nel profondo dei suoi molteplici, non immediati risvolti. Grazie.

pietro paolo tarasco
Più di vent’anni fa, non mi fu difficile inabissarmi nella poetica di Federigo Tozzi quando mi cimentai per illustrare uno dei suoi rari racconti “Le cicale” e che l’autore dedicava a Glauco, suo figlio. Fin da subito restai affascinato dalla sua sublime poetica e da quel mondo così reale e naturale che ancora oggi è ben impresso in me. La lettura di quel testo mi condusse immediatamente nei ricordi della mia infanzia quando ascoltavo anch’io le garrule cicale. “Tu pensi alle cicale, balocchi vivi dell’estate” scrive Tozzi e, ancora, “Fra te e loro ci sarà sempre una distanza che ti pare grande come il cielo che va da olivo ad olivo” e “Cantano: ma ascolti di più, involontariamente, i battiti del tuo cuore” ed infine “Ed, ascoltando le cicale, vorrei non morire mai”.

Duccio Mugnai
Su invito del professor Marchi sono contento di partecipare nuovamente a questo blog. Tozzi! Mi fa pensare agli anni universitari, alla passione sempre avuta per questo autore, ma ancor più, ad una sempre più definita e personale incapacità di fare a meno della grande letteratura. Tolstoj, Dostoevskij, Gogol, Turgenev, personalità della letteratura russa, che avvolgono i lettori nei loro grandi romanzi, tratteggiati di neve e città in fiamme, come anche di sacralità della natura e di complessità psicologica in perenne equilibrio tra colpa ed innocenza. Ed è grande letteratura perché affronta le grandi tematiche dell’umanità, come l’odio e l’amore, l’incanto della vita ed il disincanto della quotidianità volgare e violenta. E la prosa di Tozzi è tutto questo ed anche, nonché soprattutto, una ricerca spasmodica, angosciante e, comunque, dostoevskiana, dell’indefinibile, quanto terribilmente banale e quotidiana origine del male. “Un peccato originale” che scorre nelle vene e che avvelena la vita, concatenandosi caso per caso.

Elisabetta Biondi della Scriscia
La realtà che Tozzi rappresenta nelle sue opere è una realtà totalmente tragica, che si configura come un insieme di momenti irrelati e di dettagli sconnessi, senza traccia di possibili visioni salvifiche. I suoi personaggi sono identità frantumate, bloccate nel loro processo di maturazione da un conflitto irrisolto con il padre che li condanna a essere anaffettivi e inetti e drammaticamente consapevoli di ciò. Di Remigio, il protagonista de “Il podere”, Tozzi scrive: “Tutta la sua vita sembrava chiusa dentro un sacco, da cui non c’era modo di metter fuori la testa”. Questa condizione è senza via d’uscita e Remigio, come gli altri protagonisti delle opere di Tozzi, appare mosso da pulsioni inconsce incontrollabili e imprevedibili che l’autore registra con una scrittura franta e dissociata capace di esprimere anche a livello sintattico il senso della disgregazione. Il rapporto tra gli eventi non è di causa-effetto, bensì basato sull’intuizione, perciò non viene privilegiato nessun momento della strutturazione narrativa e tutti risultano così sullo stesso piano; l’uso particolare che lo scrittore fa della punteggiatura provoca, inoltre, una frantumazione del periodo e della realtà in “laceranti schegge crudamente giustapposte” (Contini). Del tutto particolare, arcaicizzante a fini espressivi, è infatti l’uso che Tozzi fa della punteggiatura e, in special modo, del punto e virgola, che egli colloca quasi sempre davanti a proposizioni coordinate o subordinate, sfiorando l’infrazione sintattica, con il risultato di ottenere la frammentazione del periodo e la promozione di elementi secondari a primari con una conseguente intensa crescita dell’emotività. Concludo ricordando il giudizio di Mario Luzi, che, parlando di Tozzi, significativamente disse: ”Se si pensa che ha scritto in pochi anni, lasciandoci tre, quattro capolavori, c’è da chiedersi chi abbia fatto altrettanto. Nessun altro!”.

Giulia Bagnoli
È il triste specchio del mondo dominato dall’odio e dalla violenza, senza che l’uomo possa capire, farsi una ragione. Non possiamo far altro che resistere.

Yumiko Nakajima
E’ bellissima la citta’ di Siena, dove ci sono piena dello spirito di Tozzi. Leggendo le scene di Siena nelle opere di Tozzi mi sento come se io stessi passeggiando a Siena; la Torre, la Piazza del Campo, i viali serpeggianti dai quali si vedono della casa uno all’altra e all’improvviso e’ aperta la vista e si vedono il panorama della citta’, la discesa e la salita e il suono della campana, ecc. Nelle opere di Tozzi, oltre alla descrizione della citta’ di Siena, sempre presente la figura del padre, che ha il potere e piena della capacita’ anche di togliere la luce dal figlio, che rimane sempre nel buio. Ma, nel podere, e’ molto misterioso, all’inizio del racconto, anche il grande diventa il figlio morente che ci allude il Cristo crocifisso prima che la luce (il padre) si e’ spenta improvvisamente.

Marco Capecchi
La morte del padre come epifania: la grandezza di uno scrittore risiede nella capacità di proporre nuovi temi ad ogni (ri)lettura. Tozzi appartiene alla schiera dei grandi scrittori.

Matteo Mazzone
Tozzi è il più grande narratore del primo Novecento: senza se e senza ma. Il rinnovamento del romanzo italiano sta proprio dietro la sua opera di costruzione sistematica di uno scritto propulsivo: uno spartito assieme vociano ed espressionistico che mescola, alla poetica del frammento autobiografico, quella allucinata visionarietà di sapore campaniano che lo porta a strutturare e a disseminare le sue opere di immagini forti, agghiaccianti, terribili e temibili: il finale de “Il podere” testimonia la lucida inquietante tragicità di un uomo, il protagonista Remigio, colpito da una morte più che esemplare: di tutte le morti possibili, è proprio quella decapitazione con l’accetta dello stesso Berto ad essergli fatale. Una morte tanto stupida quanto in grado di lasciare il lettore ad occhi sgarrati, rapito in un incubo surreale, da mettere in relazione intratestualmente (ed intertestualmente) colle maggiori opere tozziane. Tozzi va letto d’estate, al mare, sotto il sole: si stempera meglio così il suo essere tragico-distruttivo.

Silvia Tozzi
In anni passati, il nome di Tozzi ha avuto momenti di attenzione nelle rassegne culturali, mentre oggi si leggono le sue pagine più per scelta personale, che per suggerimenti dall’alto. Non c’è in Italia un clima favorevole alla sua ricezione. Ma stranamente, per esempio in Russia, c’è chi ha cominciato a giudicare qualche suo libro come “capolavoro di modernismo europeo” (Michail Viesel nel supplemento de La Repubblica “Russia Beyond the Headlines”, 17 settembre 2015). Alla traduttrice Ekaterina Stepantsova si deve l’uscita, per la prima volta in Russia, di alcune novelle e di Con gli Occhi Chiusi, e la sua collega Oksana Mushtanova ha tradotto Tre Croci. Magari, chi ha l’orecchio educato a Dostoevskij può essere più sensibile all’ascolto di Tozzi?

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