Pubblicato il 29 febbraio 2016

‘Notizie di poesia’. Febbraio, il post del mese (con i vostri commenti)

Firenze, 29 febbraio 2016 – E’ il post anniversario Buon compleanno, Palazzeschi! ad aggiudicarsi il primo posto nella classifica di febbraio di queste “Notizie”. Sapevamo che Aldo Palazzeschi è uno dei beniamini dei nostri lettori (e miei!), e anche questa volta il poeta del lasciatemi divertire si è imposto. A ruota, un altro beniamino dei nostri […]

di Marco Marchi

Firenze, 29 febbraio 2016 – E’ il post anniversario Buon compleanno, Palazzeschi! ad aggiudicarsi il primo posto nella classifica di febbraio di queste “Notizie”. Sapevamo che Aldo Palazzeschi è uno dei beniamini dei nostri lettori (e miei!), e anche questa volta il poeta del lasciatemi divertire si è imposto.

A ruota, un altro beniamino dei nostri lettori (e miei, ancora una volta!): Giuseppe Ungaretti, anch’egli celebrato nel post augurale, a specchio di quello palazzeschiano pubblicato pochi giorni prima, Buon compleanno, Ungaretti!. Al terzo posto un ex-aequo che porta alla ribalta la meno nota ma bravissima Antonia Pozzi (La bellezza secondo Antonia Pozzi) alla pari, appunto, con un Luzi di accompagnamento alla presentazione del nuovo bando del Premio Letterario Castelfiorentino: un Luzi autore del magnifico testo intitolato Dopo la curva che il poeta lesse quando gli fu conferito nel giugno del 2001 il “premio speciale” (il primo) di questa manifestazione, giunta con l’odierna XVII edizione fino ai nostri giorni. Ottima accoglienza anche per il post Dina Ferri e il ‘Quaderno del nulla’, al cui succeso ha sicuramente contribuito la bellezza del video Incompiuto canto che con garbo e rigore racconta la storia della primonovecentesca poetessa-pastorella di Siena.

Tra i commenti dedicati a Palazzeschi e al suo celebre Rio Bo, tutti come sempre riprodotti, segnaliamo quelli sensibili e davvero azzeccati di Isola di Federigo, Aretusa Obliviosa e Giacomo Trinci, che rispettivamente recitano: “Un poeta ‘fanciullino’ che affida alla scrittura la sua superstite forma di innocenza: la consapevolezza di essere ‘un uomo molto leggero’. Dalla finestra di questa visione liberata e liberatoria Palazzeschi ha guardato il mondo, senza ideologie precostituite né mitologie d’appiglio, tutto assorto in se stesso; l’ha guardato e l’ha amato, nelle sue tenaci contraddizioni e nei suoi fulminei incanti, ‘per amore della vita’. Averlo oggi uno scrittore così!“; “… e sembra davvero di vederlo occhieggiare il nostro Palazzeschi, assieme alla sua buona e grande stella, in perenne ricerca di un luogo su cui poter scopertamente e sfacciatamente risplendere, fino a farsi fiamma ardente di incendiario, oltre i limiti troppo angusti di un microscopico e cristallizzato paese da carillion“; “L’incanto antico e sempre nuovo di una voce ‘prima’ della poesia novecentesca: squillante, fresca , tenera, irriverente e saggia; come il naturale sgranarsi di questi versi dalle rime che occhieggiano all’improvviso come le risate dell’infanzia. In Palazzeschi c’è, comunque, sempre, qualcosa di irriducibilmente umano e vero; la stessa contraffazione, la maschera, il palio, conservano lo spessore vivo del sacro, di qualcosa di unico come, appunto, l’infanzia“.

Ma non possiamo tacere del quasi-saggio di Matteo Mazzone (e del suo inizio “Aldone è Aldone”, a equo bilanciamento sub specie artistica dell’Aldino, del celebre “filino” e di quanto si è cercato di dire circa l’infantilmente minuscolo, il lillipuziano e il miniaturizzato nella presentazione di Rio Bo) e dell’azzardo (in realtà criticamente molto competente ed appropriato) di Erika Olandese Volante nel porgere per omaggio al festeggiato nientemeno che fiori.

Buona lettura, e al mese di marzo (a domani)!

Marco Marchi

Buon compleanno, Palazzeschi!

VEDI I VIDEO ‘Rio Bo’ letta da Vittorio Gassman , Miniantologia poetica: “Versi dalla casina di cristallo” , “I fiori” letta da Paolo Poli , “Lo sconosciuto”

Firenze, 2 febbraio 2016 – Ricordando che il 2 febbraio 1885 nasceva a Firenze Aldo Palazzeschi.

Da L’Incendiario – per via di occultamento, contraffazione, sostituzione e riadattamento nell’ambito di rinnovate esigenze espressive – ad una prosa autobiografica di tipo memoriale intitolata Incendiario; dal 1910 (al tempo cioè del futurismo e di Marinetti) al 1932 (negli anni del cosiddetto «ritorno all’ordine»).

A un avanguardistico, mostruoso e seducente Dio del fuoco, della trasgressione e dell’eversione, subentra nel sorridente ed antiavanguardistico Palazzeschi di Stampe dell’800 – reso irreperibile quel mostro – il più conciliativo ed accettabile ritratto di un bambino un po’ troppo vivace di appena tre anni che, da piccolo piromane in famiglia, da sculacciabile incendiario inconsapevole e davvero innocente, fa di una scatola di fiammiferi il suo strumento di affermazione personale, la sua protesta contro oppressive minestre da sorbire tra i confini di invalicabili finestre.

Analogamente, nel capitolo successivo del medesimo libro, allo stesso bambino fattosi solo un po’ più grande, di cinque anni, Palazzeschi memorialista affida l’avventurosa esplorazione dell’esterno, di zone fuori casa, di paesaggi naturali immensi popolati e pericolosi, da evitare. Oltre il divieto, contro il divieto: si affonda ancora nell’infanzia, in quella che un altro scrittore fiorentino, Bruno Cicognani, avrebbe chiamato l’«età favolosa». Veicolato da ricorrenti miniaturizzazioni metaforiche di contrasto (un cagnolino di contro all’elefante) o dagli stessi diminuitivi-vezzeggiativi grammaticali dialogicamente e monologicamente impiegati dalla Piramide del tipo «pollastrino» e «lodoletta» (al femminile, quest’ultimo, in seguito cassato, come in un’opera ora in disuso di Pietro Mascagni), il poeticizzato recupero dell’anelito libertario fuori casa trova ambientazione nelle domenicali Cascine dei Fiori della libertà.

Diffidare, con Palazzeschi, almeno dopo la celebre poesia lacerbiana del ‘13, di ogni genere di fiori e, insieme, di ogni genere di libertà: «Mentre però nei miei cresceva la sicurezza di quel fatto consueto, cresceva in me un desiderio vago di andare un po’ più avanti, dove non arrivavano quegli occhi dai quali mi sentivo tenuto come da un filo: romper quel filo senza saper perché. […] Andavo lungo le siepi alte, fra i grandi tronchi tortuosi, nelle radure o nel folto, levando le gambe fra lo sterpame del basso bosco, fra l’erbe umide, su cui mi piegavo di tanto in tanto per cogliere una pervinca […]. Dove andavo? Senza mèta, senza idea, senza invito… […] Senza paura del buio che veniva, delle ombre che sarebbero discese solenni dalle piante per inghiottirmi, né del vuoto che si faceva intorno in tutto il parco col grigior della sera; senza febbre d’avventura, senza tema e senza gioia; senza curarmi se potesse taluno notare la mia presenza solo in quel luogo e a quell’ora. […] la mia scappata era fine a se stessa: pura».

La «scappatella», insomma, come le esili pervinche raccolte, color del cielo, da piccolo Perelà che, anche chinandosi per fare un mazzolino, guarda in alto, alla sua patria: da ispirato e incurante Cristo fanciullo allontanatosi per fare le cose del Padre suo. Ma ecco, proprio «ad uno svolto», «nella bella foresta artificiale che si chiama “Le Cascine”», «sul luogo del misfatto» e della «colpa», l’incontro: una violenta, sconcertante, traumatica apparizione – mutatis mutandis nel nome di Freud – da Piramide, con un bambino sorpreso, sconcertato, «incapace di prendere l’iniziativa di un passo», «in balìa di quella foga», «incalzato, sbattuto, stiracchiato giù giù per il viale»: «Qualche cosa di enorme mi fu addosso, me ne sentii acciuffato e coperto, sepolto; e senza più distinguere intorno, da un diluvio di colpi percosso, e sopra sotto e dappertutto. Trafelato, gocciolante di sudore mio padre […] mi aveva ritrovato e m’era sopra combattuto tra la felicità di riavermi intatto e di sentirmi suo dopo chi sa quale angoscioso fantasticare, e il bisogno di ripagarsi su me della pena che gli avevo fatto soffrire, facendomi soffrire».

Non il «male», dunque (il cattolico peccato o la «macchia che l’acqua non lava» di un’antica poesia di Lanterna), ma la «purezza», ad avere sollecitato quegli esplorativi e disubbidienti movimenti di fuoriuscita da regole imposte, quegli inspiegabili, misteriosi e suggestivi allontanamenti dall’incipiente sociale e esistenziale conosciuto e ritenuto insufficiente, estraneo, quei lirici primi passi di ricerca dell’io che di infantile màrchiano – per tracce indelebili di uno scandalo che anche così si rivela e di continuo si aggiorna – immaginario, visioni del mondo ed onomastica: Aldino, Valentino, l’omino di fumo, Zeffirino, Giacomino «boccino di rosa», Celestino, Stefanino che di rosa ha perfino la sua coperta di lana di trovatello…

Tutto si fa piccino, proprio come nel minuscolo paese dell’anima cantato in Rio Bo. «E ritornando nel mio bel castello – come si legge nella splendida La mano – / temere d’incontrare / gli sguardi famigliari, / perché possono capire i miei cari / dove sono stato! / Certamente Cherubina ormai à capito, / mi guarda senza dirmi nulla / al mio ritorno, e pensa: / che cattivo marito! / E Stellina, e Cometuzza, / mi guardano con occhio pio pio, / che mi dice assai bene: / dove sei stato, / fratellino mio?». Un castello da lillipuziano e osceno bestiario dell’intimità familiare pronto a farsi solitaria piramide da figurina Talmone o, come in Interrogatorio della Contessa Maria, maliziosa «cameretta» erotica per sottovalutati bambini «piscioni»: bambini in «vestina» e «calzoncini», pretestuosamente alla ricerca su un atlante di isole piccolissime.

Marco Marchi

Rio Bo

Tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: Rio Bo,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però…
c’è sempre disopra una stella,
una grande, magnifica stella,
che a un dipresso…
occhieggia con la punta del cipresso
di Rio Bo.
Una stella innamorata?
Chi sa
se nemmeno ce l’ha
una grande città.

Aldo Palazzeschi 

(da Poemi, 1909, poi in Poesie)

I VOSTRI COMMENTI

tristan51
Grande Palazzeschi: sempre geniale, mai innocuo! Che cosa sarebbe il Novecento italiano senza di te?

Marco Capecchi
Uno scrittore e poeta di grande interesse con diversi livelli di lettura e interpretazione. Ha ragione Tristan51: prezioso.

Isola Difederigo
Un poeta “fanciullino” che affida alla scrittura la sua superstite forma di innocenza: la consapevolezza di essere “un uomo molto leggero”. Dalla finestra di questa visione liberata e liberatoria Palazzeschi ha guardato il mondo, senza ideologie precostituite né mitologie d’appiglio, tutto assorto in se stesso; l’ha guardato e l’ha amato, nelle sue tenaci contraddizioni e nei suoi fulminei incanti, “per amore della vita”. Averlo oggi uno scrittore così!

Matteo Mazzone
Aldone è Aldone: non a caso, gli ho dedicato una silloge di ben sei palazzeschiane nella mia ultima raccolta poetica. È la voce più (in)transigente nel nostro Novecento, scrupolosamente e saldamente fermo nei principi della più elementare umanità, traducibili in pace ed affetto reciproco tra gli uomini. Dapprima filodannunziano (modello, purtroppo o per fortuna? a cui molti si sono ispirati,  purelo stesso Gozzano), poi romanticone-decadente (così L. De Maria), nello splendido “: riflessi” , ancora futurista (meglio dire pseudo-futurista), non tanto per l’ideologia, quanto più per la linea stilistica adottata dal movimento che lo porta a rivisitare topos letterari e con essi forme letterarie ben radicate (si pensi, p. e., alla poesia “I fiori”, dove il tema della natura e della naturalità del reale, sinonimo di gioia, di tranquillità, di calma grandezza neoclassica, vengono assolutamente distorti tramite l’uso della metafora sessuale, tanto da riconoscere in quei fiori, in quella natura, una estremizzazione del dolore del poeta, che si sente soffocato da un’apparente bellezza naturale che lo circonda, ma che nasconde in verità segnali di morte, di dolore, di paura, di perversione); poi ancora il “Codice di Perelà” e le vivaci poesie futuristiche. Di qui, l’abbandono dell’Avanguardia (l’adesione alla Voce Bianca di de Robertis), nato proprio in virtù delle sue estremizzazioni a favore della guerra, quella “igiene” così tanto declamata e propagandata ma, sotto sotto, eternamente rifiutata dall’animo nobile palazzeschiano (si veda almeno “Due Imperi mancati”, completato poi con “Tre Imperi mancati”). E dunque la scrittura del manifesto dell’ “Antidolore” o del “Controdolore”, importantissimo documento, testimonio di quel lusus-ludus che martellerà come un leitmotiv inceppato tutte le opere romanzesche dagli anni venti fino a “Storia di un’amicizia”, 1971, con Cirillo e Pomponio. Infine le ultime poesie, una raccolta per tutte, “Via delle cento stelle”, che ci presentano un Aldone amorosone un po’ vecchione, stanco di vivere, ma sempre pronto allo schizzo, al guizzo, al buffo, al lazzo e parallelamente ad un bilancio esistenziale che, amaramente, cede lentamente il passo alla rassegnazione di una vita che sta per finire. Se Tozzi è il più grande narratore del primo Novecento, se Pasolini è il più grande elegiaco in prosa ed in versi del secondo Novecento, se Zanzotto è il più grande poeta del secondo Novecento, Palazzeschi-Giurlani copre tutto il Novecento come migliore interprete delle sensibilità artistico-stilistiche italiane (almeno le prime), fino ad una personalizzazione propria che fa del giuoco, del divertissement un’antifrastica chiave di lettura dell’Italia a Lui contemporanea.

Aretusa Obliviosa
… e sembra davvero di vederlo occhieggiare il nostro Palazzeschi, assieme alla sua buona e grande stella, in perenne ricerca di un luogo su cui poter scopertamente e sfacciatamente risplendere, fino a farsi fiamma ardente di incendiario, oltre i limiti troppo angusti di un microscopico e cristallizzato paese da carillion.

Daniela Del Monaco
La fantasia di un bambino sembra aver immaginato Rio Bo, un silenzioso e tranquillo paese, immerso in un’atmosfera quasi fiabesca, con poche case, un prato verde e un piccolo ruscello. Spicca solo un alto cipresso, qui non a simboleggiare la morte, anzi, raffigurato come una sentinella che vigila con attenzione sul villaggio.
Questo “paese da nulla”, quasi invisibile, è in realtà molto importante perché ha il privilegio di avere sempre sopra una stella che brilla instancabile, miracolo che nemmeno una grande città può vantare. La presenza dell’astro sulla scena rende il quadretto vagamente simile a un presepe. Rio Bo, dunque, è tutt’altro che insignificante: nasconde un immenso tesoro se lo si sa ammirare, da lontano, la sera.


Buon compleanno, caro Palazzeschi! E grazie per la splendida magia delle tue parole, perché ad ogni rilettura la tua anima riecheggia e ci strizza l’occhio dalle pagine dei libri e da quelle, piùcontemporanee, del nostro blog… Un abbraccio e un mazzo di rose selvatiche, come volevi tu, quelle “che vanno col tempo”!Miniatura

m
Bisogna rileggere Palazzeschi. Prendere la sua ironia sul serio, meditare su ciò che ha voluto dirci con la sua originalissima opera; capire il significato di quanto lui stesso ci ha confessato: «E io non ho scherzato mai / pur dicendo di scherzare». Il problema è che ha «scherzato» così bene, con la sua sfavillante creatività, che molte persone ci sono cascate: hanno davvero creduto che scherzasse soltanto.

iddu
mi ricordo soprattutto “sorelle materassi”,ricordo ancora la serie televisiva del ’72 con sarah ferrati,rina morelli,nora ricci,la mitica ave ninchi e,per la prima volta sullo schermo,in una particina di pochi secondi,roberto benigni allora ventenne.molto piacevole..due vecchie zitelle che ,dopo aver salvato i loro averi dai debiti lasciati dal padre scialacquatore,perdono la testa per un nipote,figlio di una sorella deceduta,che,bello ma,come modo di comportarsi, è il ritratto spiccicato del nonno e che le porterà alla rovina,e una sorella più giovane,abbandonata dal marito e per questo più esperta in fatto di uomini,cercasse di far loro aprire gli occhi ed opporsi agli spadroneggiamenti del nipote.

Elisabetta Biondi Della Sdriscia
Un paese da favola, la magia dei versi liberi palazzeschiani, così colmi di musicalità – a riprova della cantabilità del verso palazzeschiano possiamo ricordare che alcune delle sue poesie più famose furono musicate e tra queste proprio “Rio Bo”, che fu musicata da Agide Tedoldi nel 1937 per Ricordi – e soprattutto la limpida ironia di Aldo Giurliani, non per nulla fiorentino e legato alla tradizione toscana! Quello dell’ironia è uno strumento difficile, solo un grande scrittore come Palazzeschi poteva utilizzarlo in modo così vario, incisivo, corrosivo e nello stesso tempo divertente e funambolico, nel corso della sua abbondante produzione letteraria. E se riflettiamo sul significato originario di ‘finzione’della parola ironia, di origine greca, capiamo meglio come Palazzeschi, utilizzando al meglio le sue doti e la sua verve, abbia scelto di utilizzare proprio quest’arma per criticare dal di dentro e con grande efficacia quel mondo borghese a cui apparteneva.

Giacomo Trinci
L’incanto antico e sempre nuovo di una voce “prima” della poesia novecentesca: squillante, fresca , tenera, irriverente e saggia; come il naturale sgranarsi di questi versi dalle rime che occhieggiano all’improvviso come le risate dell’infanzia. In Palazzeschi c’è, comunque, sempre, qualcosa di irriducibilmente umano e vero; la stessa contraffazione, la maschera, il palio, conservano lo spessore vivo del sacro, di qualcosa di unico come, appunto, l’infanzia.

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