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Firenze, 15 marzo 2016  – Segnalando che, nel nome di Rainer Maria Rilke e con il suo ideale patronato, si inaugura oggi tra Duino e Trieste la “Festa della Poesia e della Letteratura”, un’intensa sei giorni internazionale di incontri, reading, workshop, mostre e spettacoli volta ad esplorare all’insegna della poesia e dell’espressione artistica le tante e diverse culture che popolano il nostro pianeta. L’iniziativa culminerà con la cerimonia di premiazione della XII edizione del concorso “Castello di Duino”, premio di poesia riservato a giovani autori di ogni nazionalità e lingua patrocinato dall’UNESCO, dedicato quest’anno al tema “Il gesto e la genesi”. Testimonial della manifestazione lo scrittore rumeno Stefan Damian.

La prima elegia

Chi, s’io gridassi, mi udrebbe
dalle celesti gerarchie degli Angeli?
E se, d’un tratto, un Angelo
contro il suo cuore mi stringesse, certo
io svanirei di quella forza immensa
in Lui racchiusa.
Ché il Bello è solamente
la prima nota del Tremendo. E dato
di sostenerlo e di ammirarlo è a noi,
solo perché non cura di annientarci.
… E gli Angeli appartengono al Tremendo.
Per ciò, io mi raffreno e chiudo in gola
l’appello di un singhiozzo tenebroso.
A chi, gridar soccorso? Non agli Angeli.
Agli uomini? Neppure. E gli animali
sagacemente fiutano
che perigliosa a noi scorre la vita
in questo mondo d’inventati sensi.
Un albero ci resta, sul pendío,
da rivedere in ogni giorno. E resta
anche la strada che facemmo ieri:
la fedeltà viziata a un’abitudine,
che si compiacque d’indugiar fra noi;
e rimaneva; e non se n’è partita.
E la notte, la notte, allor che il vento,
tutto ricolmo dei siderei spazii,
il vólto ci consuma, oh non attende
ella, anelata, i cuori solitarii;
e li delude, poi, soavemente?
Forse, agli Amanti è piú benigna e lieve!
Ahimè! Non fanno che celarsi – stretti –
a vicenda, il destino….
E ancóra non lo sai? Via dalle braccia,
scaglia il tuo vuoto. Aggiungilo agli spazii
che respiriamo… E avvertiran gli uccelli
il dilatato ètere d’attorno
con piú gioioso volo.

   È vero, sí… Le primavere, al mondo,
avean sete di te. Talune stelle
si struggevan, lassú, che tu le udissi.
E t’investiva, a volte,
un’onda dall’ocèano del Remoto;
e, se passavi, dal balcone schiuso
un violino abbandonava tutte
le sue musiche a te.
Questa, la tua missione. E, per adempierla,
ti bastavan le forze? O non piuttosto
era un orgasmo in te, come se tutto
ti annunziasse un’amante?
E dove, in te, sarebbe stato spazio
per ospitarla,
in questo eterno pullularti dentro
di estranee immense idee,
che vengono e rivanno;
ed anche a notte, hanno dimora in te?
Ma canta, se la nostalgia ti accora,
canta le Amanti.
Ché, lungi ancor dall’essere immortale,
è il loro molto celebrato ardore.
Cantale, sí, le tristi Abbandonate,
che tu sempre invidiavi: e ti pareano
tanto amorose piú, di quelle altre
dal ricambiato amore.
E di cantarle, non cessare! Innova
la non mai colma lode!
Pensa: l’Eroe non è compiuto mai
d’essere al mondo.
Anche la morte, è a lui
pretesto per rivivere immortale
dopo l’estrema nascita.
Ma la Natura dentro il grembo esausto
riprende in sé le Amanti abbandonate,
come se non avesse piú la forza
di dar vita al prodigio un’altra volta.
Hai tu già sciolto un adeguato canto
alla memoria di Gaspara Stampa,
perché, deserta dall’amato, adesso,
una fanciulla, estatica all’esempio,
dentro si strugga di adeguarsi a lei?
Non debbono recare anche piú frutti,
queste pene defunte, a noi viventi?
Non è venuto il tempo,
che, amando, noi si giunga a liberarci
dell’adorato oggetto, in un fremente
impeto di vittoria,
come la freccia che, raccolta e tesa
entro il suo scocco, supera la corda?
Inerzia, è nulla. E solo il Moto, è tutto.

   Voci! Voci!… Mio cuore, e tu pervieni
ad ascoltare, come i Santi solo
sanno ascoltare.
L’immenso appello li scagliava in alto;
ma rimanean con le ginocchia a terra:
irreali impassibili profondi;
ed eran solo in quell’ascolto solo.
… Alla voce di Dio, non reggeresti.
Ma il soffio ascolta del messaggio eterno,
che si crea dal silenzio: e che ti giunge
da quei morti precoci.
Oh sempre che varcasti, a Roma o a Napoli,
la soglia di una chiesa, non parlava
un placido linguaggio, a te, quel loro
funereo destino?
O iscritto in una stele, ti si ergeva
innanzi, come là sovra la lapide
apparsa in te, Santa Maria Formosa.
Che vogliono da me? Ch’io con leggiero
tócco dissolva la parvenza ingiusta
di quella sorte, che talvolta ancóra
il loro etèreo moto un poco attarda?

   È strano, certo,
non abitare piú su questa terra;
non compier piú le usanze apprese appena;
né piú legare il senso
del divenire umano
alle rose e alle cose, onde ciascuna
aveva una sua voce di promessa;
non esser piú ciò ch’eravamo chiusi
nell’infinita angoscia delle mani;
e abbandonar finanche il proprio nome
come un balocco infranto.
È strano, certo,
non piú desiderare desiderii
desiderati tanto;
veder questa compagine, disciolta,
volitare per spazii sterminati…
Essere morti, è una fatica dura.
Un ímprobo ricupero di forze,
per avvertire un po’ d’eternità.
Ma i vivi, tutti aberrano, – segnando
troppo profondo il solco fra i due Regni.
Gli Angeli (è fama…) ignorano talvolta
se vanno fra i viventi o i trapassati.
Ogni progenie, la fiumana eterna
travolge via con sé per ambo i Regni;
e, con lo scroscio suo,
ne sommerge il clamore in questo o in quello.

   Ma non hanno di noi bisogno piú
quei morti d’una morte prematura…
Placidamente,
ci si divezza dalla terra: come
ci si divezza dal materno seno,
quando sia l’ora.
Ma noi viventi, noi, che ci nutriamo
di tanti inesauribili misteri;
e a cui sovente, su da un lutto, balza
il progredir beato;
potremmo, noi, senza quei morti, esistere?
Non è leggenda vana,
che un dí si ardimentò la prima Musica
a penetrar dentro la dura pietra
nel compianto di Lino; e che per entro
quello spazio atterrito, ormai deserto
dal Semidio precocemente estinto,
l’ètere scosso, per la prima volta,
oscillava nel palpito di suono,
che ancóra ci travolge e ci consola.

(traduzione di Vincenzo Errante)

Die erste Elegie

   Wer, wenn ich schriee, hörte mich denn aus der Engel
Ordnungen? und gesetzt selbst, es nähme
einer mich plötzlich ans Herz: ich verginge von seinem
stärkeren Dasein. Denn das Schöne ist nichts
als des Schrecklichen Anfang, den wir noch grade ertragen,
und wir bewundern es so, weil es gelassen verschmäht,
uns zu zerstören. Ein jeder Engel ist schrecklich.
Und so verhalt ich mich denn und verschlucke den Lockruf
dunkelen Schluchzens. Ach, wen vermögen
wir denn zu brauchen? Engel nicht, Menschen nicht,
und die findigen Tiere merken es schon,
daß wir nicht sehr verläßlich zu Haus sind
in der gedeuteten Welt. Es bleibt uns vielleicht
irgend ein Baum an dem Abhang, daß wir ihn täglich
wiedersähen; es bleibt uns die Straße von gestern
und das verzogene Treusein einer Gewohnheit,
der es bei uns gefiel, und so blieb sie und ging nicht.
O und die Nacht, die Nacht, wenn der Wind voller Weltraum
uns am Angesicht zehrt –, wem bliebe sie nicht, die ersehnte,
sanft enttäuschende, welche dem einzelnen Herzen
mühsam bevorsteht. Ist sie den Liebenden leichter?
Ach, sie verdecken sich nur mit einander ihr Los.
Weißt du’s noch nicht? Wirf aus den Armen die Leere
zu den Räumen hinzu, die wir atmen; vielleicht daß die Vögel
die erweiterte Luft fühlen mit innigerm Flug.

Ja, die Frühlinge brauchten dich wohl. Es muteten manche
Sterne dir zu, daß du sie spürtest. Es hob
sich eine Woge heran im Vergangenen, oder
da du vorüberkamst am geöffneten Fenster,
gab eine Geige sich hin. Das alles war Auftrag.
Aber bewältigtest du’s? Warst du nicht immer
noch von Erwartung zerstreut, als kündigte alles
eine Geliebte dir an? (Wo willst du sie bergen,
da doch die großen fremden Gedanken bei dir
aus und ein gehn und öfters bleiben bei Nacht.)
Sehnt es dich aber, so singe die Liebenden; lange
noch nicht unsterblich genug ist ihr berühmtes Gefühl.
Jene, du neidest sie fast, Verlassenen, die du
so viel liebender fandst als die Gestillten. Beginn
immer von neuem die nie zu erreichende Preisung;
denk: es erhält sich der Held, selbst der Untergang war ihm
nur ein Vorwand, zu sein: seine letzte Geburt.
Aber die Liebenden nimmt die erschöpfte Natur
in sich zurück, als wären nicht zweimal die Kräfte,
dieses zu leisten. Hast du der Gaspara Stampa
denn genügend gedacht, daß irgend ein Mädchen,
dem der Geliebte entging, am gesteigerten Beispiel
dieser Liebenden fühlt: daß ich würde wie sie?
Sollen nicht endlich uns diese ältesten Schmerzen
fruchtbarer werden? Ist es nicht Zeit, daß wir liebend
uns vom Geliebten befrein und es bebend bestehn:
wie der Pfeil die Sehne besteht, um gesammelt im Absprung
mehr zu sein als er selbst. Denn Bleiben ist nirgends.

Stimmen, Stimmen. Höre, mein Herz, wie sonst nur
Heilige hörten: daß die der riesige Ruf
aufhob vom Boden; sie aber knieten,
Unmögliche, weiter und achtetens nicht:
So waren sie hörend. Nicht, daß du Gottes ertrügest
die Stimme, bei weitem. Aber das Wehende höre,
die ununterbrochene Nachricht, die aus Stille sich bildet.
Es rauscht jetzt von jenen jungen Toten zu dir.
Wo immer du eintratest, redete nicht in Kirchen
zu Rom und Neapel ruhig ihr Schicksal dich an?
Oder es trug eine Inschrift sich erhaben dir auf,
wie neulich die Tafel in Santa Maria Formosa.
Was sie mir wollen? leise soll ich des Unrechts
Anschein abtun, der ihrer Geister
reine Bewegung manchmal ein wenig behindert.

Freilich ist es seltsam, die Erde nicht mehr zu bewohnen,
kaum erlernte Gebräuche nicht mehr zu üben,
Rosen, und andern eigens versprechenden Dingen
nicht die Bedeutung menschlicher Zukunft zu geben;
das, was man war in unendlich ängstlichen Händen,
nicht mehr zu sein, und selbst den eigenen Namen
wegzulassen wie ein zerbrochenes Spielzeug.
Seltsam, die Wünsche nicht weiterzuwünschen. Seltsam,
alles, was sich bezog, so lose im Raume
flattern zu sehen. Und das Totsein ist mühsam
und voller Nachholn, daß man allmählich ein wenig
Ewigkeit spürt. – Aber Lebendige machen
alle den Fehler, daß sie zu stark unterscheiden.
Engel (sagt man) wüßten oft nicht, ob sie unter
Lebenden gehn oder Toten. Die ewige Strömung
reißt durch beide Bereiche alle Alter
immer mit sich und übertönt sie in beiden.

Schließlich brauchen sie uns nicht mehr, die Früheentrückten,
man entwöhnt sich des Irdischen sanft, wie man den Brüsten
milde der Mutter entwächst. Aber wir, die so große
Geheimnisse brauchen, denen aus Trauer so oft
seliger Fortschritt entspringt –: könnten wir sein ohne sie?
Ist die Sage umsonst, daß einst in der Klage um Linos
wagende erste Musik dürre Erstarrung durchdrang;
daß erst im erschrockenen Raum, dem ein beinah göttlicher Jüngling
plötzlich für immer enttrat, die Leere in jene
Schwingung geriet, die uns jetzt hinreißt und tröstet und hilft.

 Rainer Maria Rilke

(da Elegie di Duino, in Liriche scelte)

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