VEDI I VIDEO Un’edizione del “Premio Firenze per le culture di pace”, con Heidemarie Schwermer , Saverio Tomasi e l'”omocausto” , Angela Terzani Staude parla di Vittorio Arrigoni , Maurizio Costanzo intervista il Dalai Lama , Enzo Biagi intervista Don Luigi Ciotti

Il Bando 2016 del “Premio Firenze per le culture di pace”

Firenze, 1 aprile 2016  Articolo pubblicato su “La Nazione” di mercoledì 30 marzo 2016.

L’iniziativa
Firenze per la pace, torna il Premio

Torna il premio “Firenze per le culture di pace”, promosso dall’associazione “Un Tempio per la Pace” in collaborazione con la Regione Toscana e con il patrocinio di Comune e Biblioteca delle Oblate. Dedicatario dell’iniziativa, ancora una volta il Dalai Lama, una delle voci più significative e più note a livello mondiale a favore della non violenza e del rispetto per i diritti umani; presidente onorario, il carismatico fondatore di “Libera” Don Luigi Ciotti.

Il bando dell’undicesima edizione, consultabile on line nel sito dell’associazione, prevede quattro sezioni, due delle quali di tipo letterario: quella, aperta a tutti, dedicata a testi inediti in prosa sulla pace – racconti veri e propri, ma anche diari, testimonianze, saggi – e quella per un’opera edita scelta dalla commissione giudicatrice. Ad esse si affiancano due sezioni speciali, con riconoscimenti attribuiti a personalità attive in ambito nazionale ed internazionale nel campo della promozione della pace (“Una vita per la Pace”) e a iniziative umanitarie di rilievo svolte in contesti di conflitto e intolleranza sociale (“Progetto di Pace”).

Come ogni anno sarà la Regione Toscana a pubblicare in un volume collettivo dal titolo “Racconti per la pace” i testi in concorso risultati vincitori e la pubblicazione sarà diffusa con finalità formative presso scuole e biblioteche.

La scadenza per partecipare è fissata al 31 maggio. La premiazione, come ogni anno, a dicembre, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio.

Marco Marchi

Da Ritratti di donne africane

Assétou

Non lontano dalla piccola moschea, prima del Baobab, vive da sola Assétou.
Adora le noccioline dolcificate con zucchero grezzo e la bevanda americana ai succhi tropicali. È una donna gentile; di mestiere fa la commerciante ambulante di cacahuettes lungo la strada che da Pikeoko porta a Ouagadougou.
Qualche tempo fa – era mattina – un cancro ai polmoni si è portato via suo marito. Ma ne ha lasciato i vestiti, la pipa e un bastone di legno rudimentalmente intarsiato.
L’unico loro figlio maschio, Boukari, è andato ad “alzare la china” nella capitale.
Le quattro figlie femmine sono tutte sposate, Inshallah… e sono disperse nei villaggi al di là del barrage.
Assétou si riunisce spesso con la sua grande famiglia e la nutre ancora, come sempre e come può.
L’unico rimpianto è non aver potuto far studiare le figlie.
Condivide con loro l’impotenza dovuta al non sapere scrivere né leggere.
Ha appreso, comunque, per necessità, dopo la morte del marito, l’arte del contare i numeri.
Pikeoko: qui è una mattina di gennaio calda e soffocante, ma già sembra sera dal cielo che fa ombra. Una foschia bassa colorata di rosa striscia fra le crepe arse della terra rossa. Un vento quasi muto geme come bestia.
Luce che muore e più muore più fa male agli occhi arrossati dalla polvere trasportata. Polvere grossa che fa tossire.
Assétou tossisce lungo la strada per Ouaga. Viaggia a piedi con la sua mercanzia raccolta in piccoli sacchetti di plastica riposti con cura su una cesta di vimini che trasporta sulla testa.
Il sentiero si biforca: tutte le due vie sono piane e infinite all’orizzonte. Dei cespugli piegati dal sole segnano il bivio sulla sabbia.
Durante il cammino, ancora lungo, Assétou si perde nei ricordi: è stata moglie, madre, sempre infaticabile lavoratrice.
Sulla sua spina dorsale gravano il peso e le responsabilità del vivere quotidiano.
Donna come lavoratrice, dunque, comunque e sempre: la sua è una forza doppiamente produttiva, come donna madre-nutrice e come donna produttrice.
La stessa forza che la condanna le dà il privilegio nel contempo di sentirsi insostituibile: negli anni è stata sua la cura della casa e della famiglia, l’educazione dei figli e l’assistenza agli anziani, così come la parte del lavoro di sussistenza entro il territorio domestico.
Da madre – ma anche da figlia – ha sempre assolto il compito quotidiano e pesantissimo di andare tutti i giorni a prendere l’acqua al pozzo (lontano diversi chilometri dal villaggio) e procurare la legna da ardere.
Se in Occidente lavoro significa spesso emancipazione, realizzazione personale e autonomia, in Burkina Faso, come in altri paesi africani in generale, la questione diventa vitale; parlare di lavoro porta il discorso sulla vita stessa delle donne, il loro valore e la loro sopravvivenza.
Le donne africane sono mani invisibili che silenziosamente, da sempre, costruiscono l’Africa e ne strutturano la società.
Assétou è consapevole di aver goduto di un benessere maggiore (almeno per quanto riguarda l’importanza e il riconoscimento del suo ruolo) rispetto alle sorelle i cui mariti le hanno trascinate nella capitale, via dalla situazione agreste nativa.
Il loro trasferimento nelle città ha portato all’appiattimento verso il basso di molte delle tradizioni e dei valori che ancora sopravvivono nelle campagne e di conseguenza a un peggioramento del loro status sociale.
Tra i pensieri, Assétou raggiunge la sua postazione di lavoro, all’angolo del carreffour, dove quotidianamente passano decine di autobus, taxi sept places e qualche jeep con toubab.
Ogni fermata è una corsa al finestrino, una contrattazione per la vendita; ogni franco guadagnato è un successo. Mani e braccia che entrano tra i vetri dell’autovettura, sguardi che si incrociano per scrutare quanto si può insistere, urla da ambulanti che sfondano il silenzio del disinteresse.
La compravendita è essenza di vita, di scambio di umanità; dà il senso all’attesa e al movimento del viaggio.
A fine giornata Assétou è stanca ma contenta.
Il lavoro rende liberi. Libera si rincammina verso il suo villaggio.
Visto che la sera avanza e il vento sferza con una polvere granulosa, Assétou deve scegliere d’istinto se imboccare la via più breve o quella più facile.
Fiato di sera lento, dopo cinque ore di cammino, si comincia a vedere i falò del villaggio.
Sapore di acqua fresca, un piatto di polenta bianca condivisa davanti al fuoco, un fromager che stormisce, l’ombra della notte che si posa su tutto il villaggio.
È notte tarda ormai, quando Assétou stende il tappetino liso sulla sabbia dell’aia e prega. Poi si siede e alza la sottana di wax dai colori sferzanti e conta i franchi CFA guadagnati.
Libera, ritorna alle faville del focolare, piegata sul pentolone, ruota il grande mestolo che mescia la polenta per domani.
Prima che sia mattina avrà finito. Sia quel che sia, domani, comunque Assétou s’alzerà per ricominciare la lunga giornata. Poi andrà all’angolo della finestra: fuori, in cortile, un nero di pece maschererà la notte prima che sia luce.

Cinzia Chighine

(da un volume di Racconti per la pace, 2014)

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