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Firenze, 5 aprile 2016

Tabaccheria

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo.

Finestre della mia camera,
della mia camera di uno dei milioni del mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, che cosa saprebbero?),
date sul mistero di una strada attraversata costantemente da gente,
su una strada inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
col mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che insinua umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
col Destino che guida la carretta di tutto per la strada di niente.

Oggi sono vinto, come se sapessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della strada diventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
dal dentro della mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell’avvio.

Oggi sono perplesso, come chi ha pensato e trovato e scordato.
Oggi sono diviso fra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dirimpetto, come una cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.

Ho fallito in tutto.
Poiché non ho fatto nessun proposito, forse tutto era niente.
Dall’insegnamento che mi hanno dato
sono sceso attraverso la finestra sul retro.
Sono andato fino in campagna con grandi propositi.
Ma là ho trovato solo erbe e alberi,
e quando c’era gente era uguale all’altra gente.
Mi allontano dalla finestra, mi seggo su una sedia. A che devo pensare?

Che cosa so di quel che sarò, io che non so cosa sono?
Essere ciò che penso? Ma penso di essere tante cose!
E ci sono tanti che pensano di esser la stessa cosa che non ce ne possono essere tanti!
Genio? In questo momento
centomila cervelli si credono in sogno geni come me,
e la storia non ne registrerà, chissà?, neppure uno,
e non resterà che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi insensati con tante certezze!
Io, che non ho nessuna certezza, sono più certo o meno certo?
No, neppure in me…
In quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest’ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte e nobili e lucide
– sì, proprio alte e nobili e lucide -,
e magari anche realizzabili,
non vedranno mai la luce del sole reale né troveranno ascolto?
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di conquistarlo, anche se ha ragione.
Ho sognato più di quanto Napoleone non abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo,
in segreto ho fatto filosofie che nessun Kant ha mai scritto.
Ma sono, e forse resterò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non era fatto per questo;
sarò sempre soltanto quello che aveva qualità;
sarò sempre quello che si aspettò gli aprissero la porta in una parete senza porta
e cantò la canzone dell’Infinito in un pollaio,
e sentì la voce di Dio in un pozzo tappato.
Credere in me? No, né in niente.
Che la Natura mi sparga sulla testa ardente
il suo sole, la sua pioggia, il vento che mi trova i capelli,
e il resto che venga se verrà, o se deve venire, oppure non venga.

Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casa ed esso è la Terra intera,
più il sistema solare e la Via Lattea e l’Indefinito.

(Mangia i cioccolatini, piccola;
mangia i cioccolatini!
Bada che al mondo non c’è altra metafisica che la cioccolata.
Bada che tutte le religioni non insegnano più della confetteria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolata con la stessa verità con cui la mangi tu!
Ma io penso: e quando tolgo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita).

Ma almeno resta, dell’amarezza di ciò che mai sarò,
la calligrafia rapida di questi versi,
portico rotto sull’Impossibile.
Ma almeno riservo a me stesso un disprezzo senza lacrime,
nobile almeno nel gesto ampio con cui getto
i panni sporchi che io sono, senza elenco, sul decorso delle cose,
e resto in casa senza camicia.

(Tu che consoli, che non esisti e per questo consoli,
dea greca, concepita come statua vivente,
o patrizia romana, impossibilmente nobile e mefasta,
o principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
o marchesa del Settecento, scollata e glaciale,
o cocotte celebre del tempo dei nostri padri,
o non so che cosa moderno – proprio non saprei cosa -,
tutto questo, qualunque cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invocano spiriti invoco
me stesso e non trovo niente.
Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con una nitidezza assoluta.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le automobili che passano,
vedo gli enti vivi vestiti che si incrociano,
vedo i cani, che anch’essi esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio,
e tutto questo è straniero, come tutto).

Ho vissuto, studiato, amato e perfino creduto,
e oggi non c’è accattone che io non invidi solo perché non è me.
Guardo gli stracci e le piaghe e le menzogne di ciascuno
e penso forse non hai mai vissuto né studiato né amato né creduto
(perché è possibile fare la realtà di tutto questo senza far niente di questo);
forse sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è coda al di qua della lucertola agitatamente.

Ho fatto di me quanto non ho saputo,
e quanto potevo fare di me non l’ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno subito riconosciuto per chi non ero, e non l’ho smentito e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
era attaccata al mio viso.
Quando l’ho tolta e mi sono visto allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho buttato via la maschera e ho dormito nel guardaroba
come un cane tollerato dalla gestione
perché inoffensivo,
e voglio scrivere questa storia per provare che sono sublime.

Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarti come una cosa fatta da me
e non restassi sempre dirimpetto alla Tabaccheria dirimpetto
calpestando la coscienza di stare esistendo
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno zerbino rubato dagli zingari che non valeva niente.

Ma il Padrone della Tabaccheria si è fatto sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo col disagio che dà la testa girata a metà
e col disagio che dà l’animo quando ha per metà inteso.
Lui morirà e io morirò.
Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi.

Poi morirà la strada dove fu l’insegna
e la lingua in cui furono scritti i versi.
Infine morirà il pianeta ruotante in cui tutto ciò avvenne.
In altri satelliti di altri sistemi, qualcosa simile a gente
continuerà a fare cose come versi e a vivere sotto cose come insegne,
sempre una cosa di fronte all’altra,
sempre una cosa inutile quanto l’altra,
sempre l’impossibile stupido quanto il reale,
sempre il mistero del fondo, certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre un’altra cosa, oppure né una cosa né l’altra.

Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile si abbatte all’improvviso su di me.
Mi raddrizzo energico, convinto, umano,
e mi riprometto di scrivere questi versi per sostenere il contrario.

Accendo una sigaretta meditando di scriverli
e assaporo in essa la liberazione di tutti i pensieri.
Seguo il fumo come una rotta autonoma
e godo, in un momento sensitivo e competente,
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è l’effetto di un’indisposizione.

Poi mi reclino sullo schienale della sedia
e continuo a fumare.
Finché il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.

(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
forse sarei felice).
Stabilito questo, mi alzo e vado alla finestra.

L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilandosi in tasca il resto?).
Ah, lo conosco: è l’Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla soglia).
Come per istinto divino Esteves si è girato e mi ha visto.
Mi ha fatto un cenno di saluto, io gli ho gridato «Ciao Esteves!», e l’universo
mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il Padrone della Tabaccheria ha sorriso.

(traduzione di Antonio Tabucchi)

Tabacaria

Não sou nada.
Nunca serei nada.
Não posso querer ser nada.
À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo.

Janelas do meu quarto,
Do meu quarto de um dos milhões do mundo que ninguém sabe quem é
(E se soubessem quem é, o que saberiam?),
Dais para o mistério de uma rua cruzada constantemente por gente,
Para uma rua inacessível a todos os pensamentos,
Real, impossivelmente real, certa, desconhecidamente certa,
Com o mistério das coisas por baixo das pedras e dos seres,
Com a morte a por umidade nas paredes e cabelos brancos nos homens,
Com o Destino a conduzir a carroça de tudo pela estrada de nada.

Estou hoje vencido, como se soubesse a verdade.
Estou hoje lúcido, como se estivesse para morrer,
E não tivesse mais irmandade com as coisas
Senão uma despedida, tornando-se esta casa e este lado da rua
A fileira de carruagens de um comboio, e uma partida apitada
De dentro da minha cabeça,
E uma sacudidela dos meus nervos e um ranger de ossos na ida.

Estou hoje perplexo, como quem pensou e achou e esqueceu.
Estou hoje dividido entre a lealdade que devo
À Tabacaria do outro lado da rua, como coisa real por fora,
E à sensação de que tudo é sonho, como coisa real por dentro.

Falhei em tudo.
Como não fiz propósito nenhum, talvez tudo fosse nada.
A aprendizagem que me deram,
Desci dela pela janela das traseiras da casa.
Fui até ao campo com grandes propósitos.
Mas lá encontrei só ervas e árvores,
E quando havia gente era igual à outra.
Saio da janela, sento-me numa cadeira. Em que hei de pensar?

Que sei eu do que serei, eu que não sei o que sou?
Ser o que penso? Mas penso tanta coisa!
E há tantos que pensam ser a mesma coisa que não pode haver tantos!
Gênio? Neste momento
Cem mil cérebros se concebem em sonho gênios como eu,
E a história não marcará, quem sabe?, nem um,
Nem haverá senão estrume de tantas conquistas futuras.
Não, não creio em mim.
Em todos os manicômios há doidos malucos com tantas certezas!
Eu, que não tenho nenhuma certeza, sou mais certo ou menos certo?
Não, nem em mim…
Em quantas mansardas e não-mansardas do mundo
Não estão nesta hora gênios-para-si-mesmos sonhando?
Quantas aspirações altas e nobres e lúcidas –
Sim, verdadeiramente altas e nobres e lúcidas -,
E quem sabe se realizáveis,
Nunca verão a luz do sol real nem acharão ouvidos de gente?
O mundo é para quem nasce para o conquistar
E não para quem sonha que pode conquistá-lo, ainda que tenha razão.
Tenho sonhado mais que o que Napoleão fez.
Tenho apertado ao peito hipotético mais humanidades do que Cristo,
Tenho feito filosofias em segredo que nenhum Kant escreveu.
Mas sou, e talvez serei sempre, o da mansarda,
Ainda que não more nela;
Serei sempre o que não nasceu para isso;
Serei sempre só o que tinha qualidades;
Serei sempre o que esperou que lhe abrissem a porta ao pé de uma parede sem porta,
E cantou a cantiga do Infinito numa capoeira,
E ouviu a voz de Deus num poço tapado.
Crer em mim? Não, nem em nada.
Derrame-me a Natureza sobre a cabeça ardente
O seu sol, a sua chava, o vento que me acha o cabelo,
E o resto que venha se vier, ou tiver que vir, ou não venha.

Escravos cardíacos das estrelas,
Conquistamos todo o mundo antes de nos levantar da cama;
Mas acordamos e ele é opaco,
Levantamo-nos e ele é alheio,
Saímos de casa e ele é a terra inteira,
Mais o sistema solar e a Via Láctea e o Indefinido.

(Come chocolates, pequena;
Come chocolates!
Olha que não há mais metafísica no mundo senão chocolates.
Olha que as religiões todas não ensinam mais que a confeitaria.
Come, pequena suja, come!
Pudesse eu comer chocolates com a mesma verdade com que comes!
Mas eu penso e, ao tirar o papel de prata, que é de folha de estanho,
Deito tudo para o chão, como tenho deitado a vida.)

Mas ao menos fica da amargura do que nunca serei
A caligrafia rápida destes versos,
Pórtico partido para o Impossível.
Mas ao menos consagro a mim mesmo um desprezo sem lágrimas,
Nobre ao menos no gesto largo com que atiro
A roupa suja que sou, em rol, pra o decurso das coisas,
E fico em casa sem camisa.

(Tu que consolas, que não existes e por isso consolas,
Ou deusa grega, concebida como estátua que fosse viva,
Ou patrícia romana, impossivelmente nobre e nefasta,
Ou princesa de trovadores, gentilíssima e colorida,
Ou marquesa do século dezoito, decotada e longínqua,
Ou cocote célebre do tempo dos nossos pais,
Ou não sei quê moderno – não concebo bem o quê –
Tudo isso, seja o que for, que sejas, se pode inspirar que inspire!
Meu coração é um balde despejado.
Como os que invocam espíritos invocam espíritos invoco
A mim mesmo e não encontro nada.
Chego à janela e vejo a rua com uma nitidez absoluta.
Vejo as lojas, vejo os passeios, vejo os carros que passam,
Vejo os entes vivos vestidos que se cruzam,
Vejo os cães que também existem,
E tudo isto me pesa como uma condenação ao degredo,
E tudo isto é estrangeiro, como tudo.)

Vivi, estudei, amei e até cri,
E hoje não há mendigo que eu não inveje só por não ser eu.
Olho a cada um os andrajos e as chagas e a mentira,
E penso: talvez nunca vivesses nem estudasses nem amasses nem cresses
(Porque é possível fazer a realidade de tudo isso sem fazer nada disso);
Talvez tenhas existido apenas, como um lagarto a quem cortam o rabo
E que é rabo para aquém do lagarto remexidamente
Fiz de mim o que não soube
E o que podia fazer de mim não o fiz.
O dominó que vesti era errado.
Conheceram-me logo por quem não era e não desmenti, e perdi-me.
Quando quis tirar a máscara,
Estava pegada à cara.
Quando a tirei e me vi ao espelho,
Já tinha envelhecido.
Estava bêbado, já não sabia vestir o dominó que não tinha tirado.
Deitei fora a máscara e dormi no vestiário
Como um cão tolerado pela gerência
Por ser inofensivo
E vou escrever esta história para provar que sou sublime.

Essência musical dos meus versos inúteis,
Quem me dera encontrar-me como coisa que eu fizesse,
E não ficasse sempre defronte da Tabacaria de defronte,
Calcando aos pés a consciência de estar existindo,
Como um tapete em que um bêbado tropeça
Ou um capacho que os ciganos roubaram e não valia nada.

Mas o Dono da Tabacaria chegou à porta e ficou à porta.
Olho-o com o deconforto da cabeça mal voltada
E com o desconforto da alma mal-entendendo.
Ele morrerá e eu morrerei.
Ele deixará a tabuleta, eu deixarei os versos.
A certa altura morrerá a tabuleta também, os versos também.
Depois de certa altura morrerá a rua onde esteve a tabuleta,
E a língua em que foram escritos os versos.
Morrerá depois o planeta girante em que tudo isto se deu.
Em outros satélites de outros sistemas qualquer coisa como gente
Continuará fazendo coisas como versos e vivendo por baixo de coisas como tabuletas,

Sempre uma coisa defronte da outra,
Sempre uma coisa tão inútil como a outra,
Sempre o impossível tão estúpido como o real,
Sempre o mistério do fundo tão certo como o sono de mistério da superfície,
Sempre isto ou sempre outra coisa ou nem uma coisa nem outra.

Mas um homem entrou na Tabacaria (para comprar tabaco?)
E a realidade plausível cai de repente em cima de mim.
Semiergo-me enérgico, convencido, humano,
E vou tencionar escrever estes versos em que digo o contrário.

Acendo um cigarro ao pensar em escrevê-los
E saboreio no cigarro a libertação de todos os pensamentos.
Sigo o fumo como uma rota própria,
E gozo, num momento sensitivo e competente,
A libertação de todas as especulações
E a consciência de que a metafísica é uma consequência de estar mal disposto.

Depois deito-me para trás na cadeira
E continuo fumando.
Enquanto o Destino mo conceder, continuarei fumando.

(Se eu casasse com a filha da minha lavadeira
Talvez fosse feliz.)
Visto isto, levanto-me da cadeira. Vou à janela.
O homem saiu da Tabacaria (metendo troco na algibeira das calças?).
Ah, conheço-o; é o Esteves sem metafísica.
(O Dono da Tabacaria chegou à porta.)
Como por um instinto divino o Esteves voltou-se e viu-me.
Acenou-me adeus, gritei-lhe «Adeus Esteves!», e o universo
Reconstruiu-se-me sem ideal nem esperança, e o Dono da Tabacaria sorriu.

Fernando Pessoa

(da Poesie di Álvaro de Campos, a cura di Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi, Adelphi 1993. La poesia è datata 15 gennaio 1928)

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