30 aprile 2016 – Evviva! Vittoria d’aprile di Giorgio Caproni con la sua straordinaria Preghiera dal Seme del piangere e con il relativo post dal titolo L’anima in bicicletta. Giorgio Caproni. Un’affermazione che ci riempie di gioia e che ci fa ripetere quanto uno di voi ha ricordato nel suo commento, e cioè i versi di un epigramma firmato Pier Paolo Pasolini, efficacissimo e quanto mai attendibile nel fornirci un concentrato ritratto del poeta (ho conosciuto perosnalmente Caproni e la mia testimonianza vale dunque su base esperienziale); versi che dicono: “Anima armoniosa, perché muta e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa”.

Al secondo gradino del podio un poco noto ma bellissimo testo di Borges su base dantesca Inferno V, 129 ( Lascian cadere il libro. Paolo e Francesca secondo Borges ), al terzo, a pari merito, una poesia del grande Peter Handke in compagnia dell’altrettanto grande  Wim Wenders (Quando il bambino era bambino. Peter Handke) e una dai suggestivi Frammenti lirici del sottovalutato, ma ora in rapida ascesa negli apprezzamenti di editori, critica e pubblico Clemente Rebora (La primavera sciocca di Clemente Rebora). E a proposito di Rebora con piacere segnalo l’imminente uscita di un nuovo, interessante saggio critico su di lui, che apparirà a giorni come settimo colume della collana “OperaPrima. Esordi di saggistica letteraria” da me diretta presso l’editore fiorentino Franco Cesati: Con te in persi moti. Presenze dantesche nei “Frammenti lirici” di Clemente Rebora del giovane Simone Marsi.

Tra i commenti del mese sollecitati dalla caproniana Preghiera ci sono sembrati particolarmente azzeccati quelli di giacomotrinci e di tristan51. Recitano rispettivamente: “All’origine della poesia, così mi piace pensare, della grande poesia, c’è sempre questo movimento impossibile e necessario, fatto di sventata, coraggiosa verità: un movimento dove, appunto, ‘si vive altrove’, per dirla con Pascoli. In questa straordinaria raccolta di Giorgio Caproni, il movimento rapinoso dell’invenzione lirica è miracolosamente inciso in una materia musicale di inimitabile fattura: la durezza e la fluidità insieme, la tagliente evidenza delle figure eppure la loro chiarezza, vestono l’enigma della madre fanciulla in modo perfetto. Il combinato di semplicità e complessità figurale risulta calato nella speditezza quasi metastasiana delle magre strofe, dove il settenario, l’ottonario e il novenario sembrano sgranare l’uno nell’altro in questo rosario piano e mormorato. La verità è nella voce del poeta stesso: rugosa e dolce, chiara e opaca, reticente e impavida: come ogni vero canto del perduto“; “La poesia dei ‘Versi livornesi’ che straripa, i suoi sortilegi che non si accontentano nè prima nè dopo, nel nome della madre, di un unico canzoniere appositamente delegato, per quanto acuto e sbaragliante, più ‘naturale’ e persuasivo nello scoprire e nel dire della psicologia moderna di Sigmund Freud. ‘Con lei mi metterò a guardare / le candide luci sul mare. / Staremo alla ringhiera / di ferro – saremo soli / e fidanzati, come / mai in tanti anni siam stati. / E quando le si farà a puntini, / al brivido della ringhiera, / la pelle lungo le braccia, / allora con la sua diaccia / spalla se n’andrà lontana: / la voce le si farà di cera / nel buio che la assottiglia, / dicendo “Giorgio, oh mio Giorgio / caro: tu hai una famiglia” (‘L’ascensore’). E come non ripensare, anche dalle terrazze del paradiso, ai vapori di un bar d’inverno di ‘Ad portam Inferi’? Splendido Caproni“.

Buona lettura o rilettura, e a domani, per festeggiare insieme il 1° Maggio in poesia!

Marco Marchi

L’anima in bicicletta. Giorgio Caproni

VEDI I VIDEO “Preghiera” , “Preghiera” letta dal poeta , “Preghiera” e altre poesie dai “Versi livornesi”“L’ascensore” , Ritratto di Giorgio Caproni“Perch’io”

Firenze, 11 aprile 2016 – Ha dichiarato, in margine ai Versi livornesi che costituiscono la sezione fondamentale della raccolta del 1959 Il seme del piangere, Giorgio Caproni: «Tentar di far rivivere mia madre come ragazza, mi parve un modo, certo ingenuo, di risarcimen­to contro le molte sofferenze e contro la morte».

Il titolo dell’opera – dantesco, scrupolosamente citazionale come sarà molti anni dopo, nel 1975, Il muro della terra – è già memoria: memoria lettera­ria, con le sue fedeltà e i suoi inganni iperrealistici. L’epigrafe che apre il libro, comprensiva del sintagma titolativo, chiarisce meccanismi e significati di una sottoscrizione preliminare indi­retta, in apparenza parziale, in realtà protagonistica e comples­sa nella sua unitarietà di progetto, se siamo rimandati al Purga­torio, canto XXXI, vv. 45-46, e chi parla a Dante, chi lo rim­provera severamente ben sapendo che anche il silenzio non sa­rebbe servito a tener nascosta la colpa, è Beatrice. Ampliando il contesto e parafrasando: «Tuttavia, dal momento che ora provi vergogna del tuo errore, e perché un’altra volta, udendo le lu­singhe dei falsi beni, tu sia più forte, deponi la causa delle tue lacrime ed ascolta: così udrai come la mia morte avrebbe dovu­to indirizzarti in altro senso, spingerti non ai beni della terra ma al cielo».

Siamo nel Paradiso terrestre, alle soglie della puri­ficazione necessaria per intraprendere l’ultimo viaggio: alle re­quisitorie fanno seguito le esortazioni, all’aspra eloquenza del­le reiterate rampogne i lucidi e struggenti argomenti della per­suasione. Ed è impossibile non accorgersi dell’assolutizzazione che Caproni effettua nel privilegiare due endecasillabi esatti, piegando le ragioni del senso a quelle del suono. «Perché tu sia più forte, per essere più forte», diceva Dante a se stesso per bocca di Beatrice. Al rigore della citazione e del riferimento bi­bliografico esibito si abbina la libertà del taglio, portatrice, tra memoria volontaria e involontaria, di nuove coloriture semantiche: «…Udendo le sirene, sie più forte, / Pon giù il seme del piangere e ascolta…». Quel liberissimo sie, sciolto dagli origi­nari legami subordinativi, rende possibile, modernamente, la coordinazione, si trasforma in primo appoggio in una serie pa­rificata accresciuta.

Gli imperativi dell’affetto diventano tre, ed è un modo quotidiano di variare e di ripetere un’unica rac­comandazione, meno sottilmente ragionato e invece più sottil­mente efficace per rivolgersi a un bambino distratto, abituato a sbagliare e a pretendere quegli immancabili interessamenti per il suo bene. Un bambino sempre in attesa, se l’arcaico e dantesco rispitto risulta rapportabile al provenzale respit. Eppure quel sie che si presenta genericamente come un con­giuntivo rimasto senza appigli è anche, nuovamente per via di memoria, l’in­dice della precarietà della comunicazione tentata, un preannuncio della casualità e delle pietose convenzioni che fondano il codi­ce. I collegamenti sono difficilissimi, la linea è disturbata, cade di continuo. Dal poco che di confuso e di interrotto si riesce a ricevere nasce la poesia.

Ed ecco, per via poetica appunto, il «seme del piangere», la dantesca causa delle lacrime svelata conclusivamente in una poesia proprio così intitolata, attigua a quella Preghiera che qui, nel nome della madre, si propone alla lettura e all’ascolto anche attraverso la voce del poeta stesso.

Un bambino «debole come un cerino» in una città grande, immensa e sconfinata per lui, ha cercato per tutto il giorno «la mamma-più-bella-del-mondo», ed essa non c’è più, è via, si è separata da lui, l’ha lasciato. Il bambino piange «nel buio d’un portone», è il solo ad aspettare il passag­gio di Annina, a richiederlo in una città smisurata, irriconosci­bile, fatta di attese vuote: «Quanta Livorno, nera / d’acqua e – di panchina – bianca!»; «Via era la camicetta / timida e bianca, viva. / Nessuna cipria copriva / l’odore vuoto del mare / sui Fossi, e il suo sciacquare» (vv. 1-2, 17-21). Il poeta ha già scritto in A Giannino: «l’amore mio che stava ad aspettarmi / solo su una panchina» (vv. 3-4). Annina, intanto, è in un fumoso bar di stazione, anche lei confusa, incapace perfino di scrivere al figlio una car­tolina che dica, rasssicurandolo: «Caro, son qui» (Ad portam inferi, v. 30).

L’anima di Caproni, l’arte, è supplicata adesso di pedalare, di volare come Annina ciclista. Ora la fretta è la poesia. La polisemia del termine anima è garantita da una fonte sicuramente te­nuta presente, come testimoniano analogie tematiche (il moti­vo del temuto disviamento), puntuali rimbalzi lessicali (conge­do, va’, leggera), un impiego rimico soltanto rovesciato: «Deh, ballatetta alla tu’ amistate / quest’anima che trema raccoman­do: menala teco, ne la sua pietate, / a quella bella donna a cu’ ti mando». Si comincia con Dante e si finisce con Cavalcanti e ancora con Dante, se nel «dille» del v. 80 si rivela attivo il ricordo del canto VII del Paradiso, vv. 10-12: «Io dubitava, e dicea ‘Dille, dille!’ / fra me: ‘dille dicea, alla mia donna / che mi disseta con le dolci stille».

Ma è il momento, dopo tanto aspet­tare, di far arrossire Annina, di gettare la sigaretta che il poeta ha dato all’anima per farsi coraggio e avvicinarsi alla donna. Alla fine il messaggio sussurrato all’orecchio consiste nel dire soltanto da parte di chi è l’ambasciata: «suo figlio, il suo fidanzato».

Marco Marchi 

Preghiera

Anima mia, fa’ in fretta.
Ti presto la bicicletta
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.

Arriverai a Livorno
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nei buio, volta al mercato.

Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un’altra, sulla stessa strada.

Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.

Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.

Ricordati perché ti mando:
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisterone.

Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.

Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accostati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.

Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mormorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.

Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.

Giorgio Caproni 

(da Versi livornesi, in Il seme del piangere, 1959)

I VOSTRI COMMENTI

m
C’è sempre più bisogno di rivolgersi a Caproni, riscoprirlo e rileggerlo. Fare nostro, insomma, lo strepitoso epigramma che gli dedicò Pasolini: «Anima armoniosa, perché muta e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa»

L’anima, la città, la donna: poesia intensa, ricca di riferimenti stilnovistici e moderna. Il luogo e la relazione che innalzano e sublimano. In questa poesia Caproni si rivela immenso poeta colto e immerso spiritualmente nella vita.

Duccio Mugnai
Caproni, un’anima sospesa tra Genova e Livorno, tra la necessità di piangere un’esistenza amara e difficile e la consapevolezza dell’impossibilità di fermarsi al solo ricordo, di andare avanti. La sua forza cruda e poetica si sostanzia di Dante, ma anche dell’eleganza di Cavalcanti, ma ciò che più mi colpisce sempre in lui, non sono solo Iisuoni polisemantici della “sirena”, ma la sua stravagante creatività espressiva ed estroversa, sempre libera, mai invadante. Così, l’anima butta via la sigaretta vissuta, biascicata dall’esistenza per mormorare parole nel segreto, che toccano la sensibilità del lettore nel loro proprio nascondimento e prefigurano un povera vecchia con lo “scialletto nero”, immagine “tersa” di lutti personali, nonché della propria morte.

Matteo Mazzone
Una voce poetica specchiante ora la spontaneità e l’immediatezza, ora anche la fragilità e la delicatezza di un vissuto doloroso. Una voce così lontana da salotti d’intellettuali, da pomposità magniloquenti ma al contempo poesia che si rende consapevole emozione di una più intima lacerazione dolorosa, in cui essa stessa si trova a giacere e titanicamente ad emergere come guizzante alternativa alla morte dei sensi e dei sentimenti. Caproni si allinea alla personalità triestina sabiana come modus operandi, ma a differenza di quello riesce ad immettere nei suoi versi quel giusto quantitativo di ironia che depura e depaupera i suoi componimenti di qualunque pretenziosità psicologica. È il poeta giusto per una lettura serale, il moderno tra i contemporanei, semplice,
emozionante pastore e registratore della condizione umana e delle sue più urgenti problematiche.

Isola Difederigo
È il Caproni indimenticabile di questa laica e umanissima preghiera, questo modo struggente ed esclusivo di affidarsi alla parola della poesia, l’anima, come a un’improbabile liturgia resurrezionale di figlio-fidanzato, di figlio in croce. Un poeta altissimo, se ancora ad assisterlo è lei, Beatrice-Annina, la grazia che mette ali al suo soffrire.

tristan51
La poesia dei “Versi livornesi” che straripa, i suoi sortilegi che non si accontentano nè prima nè dopo, nel nome della madre, di un unico canzoniere appositamente delegato, per quanto acuto e sbaragliante, più “naturale” e persuasivo nello scoprire e nel dire della psicologia moderna di Sigmund Freud. “Con lei mi metterò a guardare / le candide luci sul mare. / Staremo alla ringhiera / di ferro – saremo soli / e fidanzati, come / mai in tanti anni siam stati. / E quando le si farà a puntini, / al brivido della ringhiera, / la pelle lungo le braccia, / allora con la sua diaccia / spalla se n’andrà lontana: / la voce le si farà di cera / nel buio che la assottiglia, / dicendo “Giorgio, oh mio Giorgio / caro: tu hai una famiglia (“L’ascensore”). E come non ripensare, anche dalle terrazze del paradiso, ai frastornanti vapori di un bar d’inverno di “Ad portam Inferi”? Splendido Caproni.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Nella poesia di Caproni il leit motiv è quello del viaggio, un viaggio verticale nella memoria e nel tempo, che ci trasporta in una dimensione irreale, onirica, in cui possono coesistere passato e presente: una dimensione in cui il figlio ormai vecchio cerca di riscattare la “colpa” di essere cresciuto rivelando alla madre perduta, Annetta, ancora ragazza, tutto il suo amore filiale, un amore così intenso che, per dirla con Pasolini, “E’ difficile dire con parole di figlio”. La comunicazione riparatrice è affidata da Caproni alla sua anima, alla sua poesia ed è proprio attraverso la bellezza di questi versi indimenticabili che egli realizza il miracolo di far rivivere, in una Livorno d’ante guerra, la figura materna. Dante e Cavalcanti sostanziano profondamente la poesia di Caproni, ma il poeta livornese li ha fatti propri tanto intensamente da trasfigurarli nella complessa, apparente semplicità dei suoi versi.

framo
“Sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita”. Da esule di “madre”, per versi deliberatamente asciutti e cantabili, il poeta della “disperazione calma” e delle “vere sillabe” ci emoziona in sella alla sua anima che fuma sigarette e che, all’occorrenza, sa gettarle via (adulto-bimbo con la mente all’erta, suscettibile di presentite, prevedute-imprevedute distrazioni). La distanza resta viva nel sospeso, l’angoscia per la perdita… resa in altra dimensione. Formidabile Caproni. Grazie.

giacomotrinci
All’origine della poesia, così mi piace pensare, della grande poesia, c’è sempre questo movimento impossibile e necessario, fatto di sventata, coraggiosa verità: un movimento dove, appunto, “si vive altrove”, per dirla con Pascoli. In questa straordinaria raccolta di Giorgio Caproni, il movimento rapinoso dell’invenzione lirica è miracolosamente inciso in una materia musicale di inimitabile fattura: la durezza e la fluidità insieme, la tagliente evidenza delle figure eppure la loro chiarezza, vestono l’enigma della madre fanciulla in modo perfetto. Il combinato di semplicità e complessità figurale risulta calato nella speditezza quasi metastasiana delle magre strofe, dove il settenario, l’ottonario e il novenario sembrano sgranare l’uno nell’altro in questo rosario piano e mormorato. La verità è nella voce del poeta stesso: rugosa e dolce, chiara e opaca, reticente e impavida: come ogni vero canto del perduto.

5555
“Chi avrebbe mai pensato, allora, / di doverla incontrare / un’alba (così sola / e debole, e senza / l’appoggio di una parola) / seduta in quella stazione, / la mano sul tavolino / freddo, ad aspettare / l’ultima coincidenza / per l’ultima stazione?” (“Ad portam Inferi”). Le parole del figlio soccorrono chi ne è sprovvisto, le ridanno la vita.

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